venerdì 30 marzo 2012

Pasta Diva per Maria Callas: Pasta alla Norma

Casta Diva - V. Bellini - Maria Callas
E dopo Eleonora, GaiaGreta e Mai, tocca a me chiudere la rassegna dedicata alle donne straordinarie. Lo farò con un'altra donna di musica, che nel mio cuore, non vogliatemene, è in assoluto la più grande. La più grande di tutto il '900, ad oggi insuperata e onestamente inimitabile per l'immensità del dono di cui è stata portatrice: Maria Callas. 
Non c'è altra donna che nel mondo della musica sia riuscita a creare attorno a se un tale alone di mitologia e meraviglia come questa incredibile donna. Una dea scesa dall'Olimpo che per un breve istante ha preso sembianze mortali ed ha lasciato dietro se una traccia ed un ricordo immortali. L'aggettivo Divina è ormai sinonimo di Maria Callas. 
Non vi racconterò della sua infanzia di bambina prodigio divisa tra le spire di una madre anaffettiva ed un padre molto amato ma lontano, né della sua ascesa inarrestabile nel paese che l'accolse senza compromessi e nel quale divenne Maria Callas. Non mi soffermerò sul mito metropolitano della tenia che avrebbe ingoiato per perdere quasi 30 chili e trasformarsi nell'icona di bellezza ed eleganza imitata da milioni di donne, né sull'amore assoluto per l'uomo che divenne per lei l'isola su cui ritornare e causa di naufragio emotivo. 
Desidero parlarvi della donna che non conoscete, della musa che aveva una parte così terrena da renderla vicina, molto vicina a noi e per questo ancora più amata. 
Maria Callas amava cucinare. Quella per il cibo era per lei una vera e propria passione, un amore che crebbe e prosperò in Italia e del quale furono testimoni molti degli amici che frequentavano la sua casa. Ma il cibo era per lei anche un grande piacere, che si concedeva frequentando ristoranti di grande prestigio dove spesso, al termine della cena, entrava in cucina per complimentarsi con lo chef e chiedere la ricetta. Vi ricorda qualcuna di voi? 
Maria Callas non sapeva cucinare quando arrivò in Italia ma dimostrò immediatamente di essere molto dotata e istintiva. Le sue maestre furono la suocera Giuseppina Meneghini e Nela Rubinstein, moglie del grande pianista e cara amica. Nella sua casa di Verona volle una grande ed attrezzatissima cucina in cui esprimersi. "Cucinare bene è come creare, chi ama la cucina ama anche inventare" confidò una volta ad una amica. Ve la immaginate la donna più osannata ed ammirata del mondo con un grembiulino, mentre assaggia il sugo d'anatra per i bigoli o prepara le cocotte per i tagliolini gratinati al prosciutto? Io si, e mi si allarga il cuore. 
La divina soffriva di una strana malattia di cui siamo affette anche noi foodblogger: nella sua cucina stazionavano oltre 40 volumi di libri di ricette provenienti da ogni parte del mondo e tra i quali occhieggiavano titoli come "Il Vero re dei Cucinieri", l' immancabile "Artusi", il "Talismano della Felicità" e la raccolta di "Petronilla".  Erano numerosi anche i quadernini su cui appuntava e conservava le ricette carpite durante i suoi viaggi. Fra una rappresentazione e l'altra, si concedeva intere giornate chiusa nella sua cucina a preparare sontuose cene per i suoi più cari amici e riempiendo di orgoglio il marito Titta. Alcuni dei suoi cavalli di battaglia erano le Ostriche Fritte, il Baccalà alla Veronese, la Vitella Ripiena alla francese, la Torta Giamaica alle fragole. Inoltre era golosa di sorbetto, che amava preparare e mangiava senza controllarsi, a tal punto che la sua domestica nascondeva le vaschette su ordine della stessa Callas.
Tutti questi aspetti di lei così poco conosciuti al grande pubblico, hanno trasformato l'ammirazione incondizionata per un personaggio talmente immenso da apparire irreale e infinitamente lontano, in un sentimento di tenerezza e simpatia/empatia. Non posso smettere di pensare a lei che crea armonie di sapori ed ingredienti con lo stesso impegno e maestria con cui affronta la Caballetta della Norma, e magari qualche volta combina un pasticcio, perché in cucina è umana e non una Dea e come noi, butta tutto nella spazzatura senza farsi vedere perché è peccato. In cucina è Maria, solo Maria; in cucina può essere una donna normale e sedurre attraverso altri sensi tenendo per un istante la Divina lontana da sé. 
Come dice mia sorella Alessandra, che da buona soprano ha per Maria Callas una vera adorazione, "non doveva essere facile essere lei. Chi ha un dono come il suo è costretto a scegliere tra normalità e successo e spesso questo conduce alla solitudine. La cucina era diventato per lei il luogo dove essere "normale". In fondo studiare un'opera è come cucinare: la musica, la melodia, le parole sono gli ingredienti su cui si crea il personaggio, ed il personaggio è il piatto finito." Hai proprio ragione Sandrina. 
Potrete leggere ancora di questa grande passione sul libro "Le ricette di Maria Callas" scritto da Bruno Tosi nel 2006 ed edito dalla Gremese Ernesto. 




Maria Callas ha rivoluzionato l'intero mondo della lirica, del canto e dell'interpretazione, entrando così visceralmente nel personaggio da diventare lei stessa Norma, o Tosca o Violetta. Come spesso succedere quando la personalità di un interprete è talmente intensa ed unica, un ruolo o un'aria gli si appiccicano addosso in maniera indissolubile. Pensate al "Vincerò" della Turandot. Io non riesco ad immaginarlo se non dalla inconfondibile voce e potenza di Pavarotti. Così "Casta Diva" è per me Maria Callas. Quell'attacco profondo e drammatico, quel colore scuro, denso, liquido ha fatto si che Norma/Callas siano tutt'oggi la pietra di paragone per chiunque si accinga ad affrontare un'opera di tale altissima difficoltà e bellezza. A quest'opera così splendida e poco rappresentata proprio per oggettive difficoltà tecniche, è stata per così dire "dedicata" una pasta creata ai primi del '900 a Catania. La storia vuole che a dare il nome a questa ricetta sia stato il commediografo catanese Nino Martoglio, che assaggiandola per la prima volta disse "Chista è 'na vera Norma", riferendosi ovviamente al capolavoro Belliniano. Il destino, oltre un secolo dopo, ha voluto che proprio durante una passata edizione della BIT di Milano, fiera sul turismo alla quale partecipo per ovvie ragioni, la Pasta alla Norma venisse proclamata la specialità regionale più amata dagli Italiani, mettendo a tacere bistecca alla Fiorentina e Pizzoccheri della Valtellina. 
Maria Callas e Pasta alla Norma: due miti e un solo sapore.
Ingredienti per 4 persone:
500 gr di pomodori pelati (io quelli fatti in casa da mia suocera)
350 gr di pasta corta (maccheroni, o pennette rigate o tortiglioni)
200 gr di ricotta salata (infornata per chi preferisce)
2 belle melanzane lunghe 
1 o 2 spicchi d'aglio
Basilico fresco
Olio extra vergine
Sale
Lavare bene le melanzane e tagliarle a fette di c.ca 5 mm quindi posizionatele in uno scolapasta leggermente inclinato, cospargetele di sale grosso e lasciatele spurgare il liquido amarognolo per almeno 1 ora. Sciacquatele bene per eliminare il sale ed asciugatele con attenzione. Friggetele in olio caldo finché non saranno ben dorate, scolatele e sistematele su carta assorbente affinché si asciughino dall'olio. Tenete in caldo
Preparate la salsa. Fate rosolare l'aglio in olio extra vergine quindi buttate i pomodori pelati e fate cuocere facendo insaporire bene ed aggiungendo qualche foglia di basilico. Salate. Tagliate le melanzane a strisce non troppo piccole tenendo qualche fetta intera per la decorazione del piatto, e mettetele nella salsa. Buttate la pasta in acqua bollente salata e fate cuocere al dente. Scolate e passatela nel sugo saltandola per un istante, impiattate e cospargete di abbondante ricotta salata grattugiata a fori grandi. Decorate con un ciuffetto di basilico fresco. Servite, gustate e ascoltate la voce degli angeli! 

Con questa ricetta do il mio contributo alle Donne (St)raordinarie di marzo per la raccolta delle Strenne. 
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martedì 27 marzo 2012

Tre bastano: Crepes con meringata di ricotta e ananas arrostito

If you like Pina Colada - R. Holmes
Non sono impazzita. 2 post consecutivi a base di crepes possono essere sufficienti. Ma come dice il proverbio, non c'è due senza 3 e quello che mancava alla mia rassegna di piatti crepposi, era una crepe dolce. Dopo avere imparato a memoria la ricetta di Giuseppina, che ho fatto perdutamente mia, ho cercato di preparare un dessert ispirata da quello assaggiato l'anno scorso a Lecce creato dallo chef Donato Episcopo. Avendo a disposizione della ricotta freschissima del mio omino di fiducia, ho pensato ad un ripieno voluttuoso ma leggero e per dare corpo e volume alla ricotta, ho preparato una meringa italiana. La meringa italiana ha il vantaggio di potere essere utilizzata per qualsiasi preparazione a freddo grazie alla pastorizzazione dell'albume attraverso la cottura a mezzo dello sciroppo di zucchero ad altissima temperatura. Per la preparazione della meringa italiana vi rimando a questo post. 
Dopo avere setacciato con cura la ricotta, ho incorporato delicatamente la meringa ed il risultato...fantastico. Un composto lieve, dolce ma non stucchevole, cremosissimo e soprattutto misero in calorie. Ad accompagnare questo ripieno era necessario qualcosa di molto aromatico e fresco contemporaneamente. Mi sono innamorata dell'ananas arrostito di Ladurée, una preparazione banalmente semplice ma di grande effetto e soprattutto ricca di una tale intensità di sapori da lasciarti un sogno sulla lingua. L'ananas cotto al forno rilascia i suoi succhi che si fondono con il caramello all'arancia e rum, dando vita ad una salsa strepitosa che da sola è una meraviglia sul gelato, sulla macedonia ed oltre...Provatela, sono certa che ne sarete conquistate. 
Ingredienti per la meringata di ricotta:
- 400 gr di ricotta freschissima
- 200 gr di zucchero semolato fine (tipo Zefiro)
- 100 gr di albumi (3 albumi c.ca)
- 100 ml di acqua
Preparate la meringa italiana come indicato qui
Setacciate accuratamente la ricotta e mettetela in una ciotola capiente. Amalgamate la meringa aggiungendo un paio di cucchiaiate per ammorbidire la ricotta, quindi il resto della meringa. Valutate voi la quantità di meringa da aggiungere, se volete un composto più voluminoso e dolce potete utilizzarla tutta, altrimenti anche solo 2/3 del totale.
Preparate le vostre crepes come ci ha spiegato Giuseppina e come trovate anche qui. Riempite un sac a poche con bocchetta a stella e farcite le vostre crepes. Prima di richiudere la crepe, versare un cucchiaino di salsa d'ananas sulla meringata. Chiudetele a mezza luna quindi disponete i ventaglini di ananas a fianco della crepe ed irrorate con la salsa caramellata. 
Ananas arrostito - Ricetta Ladurée (da "Dolce")
Per 8 persone
1 ananas
1 baccello di vaniglia
4 cucchiai d'acqua + 20 cl
125 gr di zucchero semolato
1 succo d'arancia
1 cucchiaio di rum
Sbuccia l'ananas, taglialo in 6 parti uguali nel senso della lunghezza ed elimina il cuore. Disponi in pezzi in una pirofila
Con un coltello taglia a metà nel senso della lunghezza il baccello di vaniglia e raschia l'interno per estrarne i semi. Versa i 4 cucchiai d'acqua in un pentolino, aggiungi i semi della vaniglia, e scalda sino a farla fremere. Togli dal fuoco e lascia in infusione per 15 minuti.
Preriscalda il forno a 160°. In una casseruola fai cuocere lo zucchero ed i 20 cl di acqua, mescola con una spatola di legno sino ad ottenere un caramello di una bella colorazione. Togli dal fuoco e aggiungi successivamente con attenzione, per evitare di bruciarti, l'acqua vanigliata filtrata, il succo dell'arancia ed il rum caldo. Questa miscela deve essere calda per evitare esplosioni con il caramello. Versa il liquido sui pezzi di ananas, inforna e lascia cuocere per c.ca 1h45. Bagna regolarmente l'ananas con il succo di cottura. Quando ha assunto un bel colore ambrato, togli dal forno e lascia raffreddare. 
Taglia i pezzi di ananas arrostito di fettine di c.ca 5 mm e disponile con armonia a fianco della crepe, accompagnata dal suo succo deliziosamente aromatico. 
Con questa ricetta partecipo per l'ennesima volta all'MTC di marzo sulle crepes di Giuseppina.
Ed anche al contest di Donatella "Trasformiamo la ricotta"



sabato 24 marzo 2012

Riproviamoci: Crepes con indivia brasata, fonduta al Taleggio e pere caramellate

Bittersweet Simphony - The Verve
E dopo la cappellata con tocco da maestro sulla precedente ricetta, dove ho postato delle crepes con farina di ceci, convinta, pur avendo letto come si deve il regolamento ed avendo sostituito nel mio cervello bacato "qualsiasi farcitura" con  "qualsiasi farina", ci riprovo un po' affannata ed anche un tantino floscia perché  quelle crepes ripiene di fave mi piacevano un monte e l'ispirazione ormai è volata via come un piccione spaventato. La mia amica Cristina mi ha detto che questo è stress da Contest e credo che abbia toccato un nervo scoperto. Perchè qui non si tratta di un contest come tutti gli altri. Qui si parla di MTC, ovvero di un qualcosa che cresce di intensità e grandezza ogni mese che passa, attraverso ricette, invenzioni, trovate mirabolanti e post pieni di sensibilità ed intelligenza, il che, non so a voi, ma a me ogni volta mi precipita nel baratro dell'ansia da prestazione causando un black out che spesso si risolve in zona Cesarini (oltre che a farmi diventare idiota come nel caso delle crepes con farina di ceci!). 
Così ci riproviamo, con un piatto unico vegetariano, questa volta rispettando alla lettera la ricetta di Giuseppina (scusami Giusy per la precedente!), semplice semplice e dai contrasti intensi. Intanto faccio la premessa che le crepes di Giuseppina sono assolutamente perfette. 
Confesso che non sono mai stata una grande amante delle crepes, a parte le "galettes" con grano saraceno che ho mangiato spesso in Francia e che sono le mie favorite. La ragione sta proprio nel non avere trovato fin ora una ricetta convincente e questa, care amiche, è davvero da incorniciare. L'utilizzo del burro chiarificato, che in passato ho usato esclusivamente per friggere cotolette e sogliole alla mugnaia, con le crepes regala un'enorme soddisfazione. Risultano leggere, assolutamente asciutte e deliziosamente saporite se si ha l'accortezza di spennellare la padella senza esagerare. 
Ritorniamo   quindi a bomba sulla ricetta delle mie CREPES CON INDIVIA BRASATA, FONDUTA AL TALEGGIO, PERE CARAMELLATE CON ZUCCHERO MUSCOVADO E NOCCIOLE TOSTATE...titolo lungo, ma un po' di scena bisogna farla, o no?
Per le Crepes la perfetta ricetta di Giuseppina - PER 4 PERSONE
- 150 gr di farina 0
- 350 ml di latte
- 50 ml di acqua 
- 2 uova medie
- 1/2 cucchiaino di sale
- 30 gr di burro chiarificato
Per la Farcitura
4 cespi di Indivia non troppo grandi
1 pera abate grande
300 gr di Taleggio 
100 ml di panna
50 ml di latte
100 gr di zucchero muscovado 
100 gr di nocciole spellate e tostate
un pizzico di sale
Sbattere le uova leggermente in una ampia ciotola ed aggiungere la farina setacciata intervallando la miscela di latte ed acqua. Mescolare tutto con una frusta per evitare la formazione di grumi e in ultimo aggiungere il sale. Mescolare ancora e fare riposare per almeno un'ora. Il composto dovrà risultare piuttosto liquido. Al momento dell'uso mescolate con cura quindi fate sciogliere il burro in un pentolino ed utilizzatelo per spennellare la padella in cui preparerete le vostre crepes. Per la quantità di composto per ogni crepe, io uso un mestolino che è perfetto per la mia padella antiaderente e che mi consente di preparare delle crepes di c.ca 15 cm di diametro. Cuocete le vostre crepes facendo attenzione alla colorazione che è anche segno di giusta cottura. Quando avrete delle chiazze dorate sul lato a contatto con la padella,  e i bordi croccanti, è ora di girare la vostra crepe. Impilate le crepes una volta pronte. Si manterranno calde.
Per il ripieno, utilizzate una padella antiaderente per brasare l'indivia. Tagliate i cespi di indivia trasversalmente con uno spessore di mezzo cm e posizionateli sulla padella caldissima. Quando prenderanno colore, girateli, un pizzico di sale e terminate la cottura. In totale dovreste impiegarci 5/6 minuti. 
Tenete in caldo. Preparate la vostra fonduta di Taleggio. Vi consiglio di anticipare l'operazione di tagliare il taleggio in dadini e lasciarlo a bagno nella panna e latte per almeno 30 min. Quindi mettetelo in un pentolino a fiamma moderata e fate sciogliere il tutto fino ad ottenere un composto cremoso. Potete aggiungere latte alla bisogna. Se vi piace, potete profumare con un pizzico di noce moscata. In una padella con bordi bassi mettete lo zucchero muscovado e fate sciogliere a fiamma bassa quindi aggiungete la pera con la buccia, tagliata a fettine sottili e fatela caramellare bene. 
Assemblate le crepes mettendo l'indivia brasata a metà della base, quindi copritela con la fonduta di taleggio e chiudete la crepe. Sistemateci sopra le pere caramellate e cospargete il tutto con le nocciole tritate grossolanamente. Servite caldo. Bon Apetit!


Ecco il mi secondo contributo all'MTC di Marzo con le Crepes di Giuseppina





venerdì 23 marzo 2012

Il mio primo incontro con la Puglia: Crepes di farina di ceci con purea di fave bianche e cime di rapa stufate

Amara Terra mia - D. Modugno
Alcune delle storie più affascinanti che ho ascoltato nella mia vita e che non smetterei mai di ascoltare, sono quelle raccontate dai nostri padri, quelle che risalgono alla loro infanzia e prima giovinezza. 
In qualche momento mi trovo a sbuffare quando mia figlia mi chiede "Dai mamma raccontami quando eri piccina", perché credo di averle ripetuto le mie avventure fino allo sfinimento, però poi mi rendo conto che io provo lo stesso piacere quando mio padre o mio suocero si tuffano nelle profondità del passato per portare alla luce vicende che ricordano ancora con una freschezza ed una emozione tali da metterci tutti muti da una parte. 
Le storie di mio suocero in particolare, mi colpiscono fortemente perché provengono da un vissuto che non riconosco e che arriva da una terra che ho imparato ad amare con sincero attaccamento. Mio suocero Francesco è pugliese e potrei dire che lo è fino alla punta dell'ultimo capello, nel suo spirito, nella veracità, nell'attaccamento alla sua terra lasciata da ragazzo, nel suo animo burlone e sempre pronto allo scherzo, cosa che ritrovo in molti pugliesi incontrati dopo di lui. Inoltre mio suocero è un vero melomane ed un grande appassionato di Puccini. Credo che sia l'unica persona che conosco a sapere a memoria le opere del Maestro. Come possono non adorarlo?
La mia prima volta in Puglia è stata proprio nella sua casa a Palo del Colle. Ero appena ventenne, fidanzata da poco e con imbarazzo potevo affermare a quei tempi di non essere mai scesa più giù di Napoli. Era un agosto tropicale: ho ancora negli occhi l'immagine del cartellone della temperatura che a mezzanotte, nel cuore di Bari segnava 33°. Appena arrivata mi ammalai per il gran caldo. Mi sembrava di essere su un'altro pianeta. La lingua incomprensibile mi provocava moti di riso irrefrenabile. Tutto il parentado pugliese che girava intorno a quella casa era irresistibilmente gioviale, scherzoso, avvolgente. Io non capivo niente ma ogni tanto, grazie ad un naturale orecchio per accenti e suoni, lanciavo là un "ciccosa ié 'ddò" (perdonate ma non ho idea di come si scriva) scatenando l'ilarità generale. E' laggiù che ho imparato a giocare a Tressette, che ho mangiato il mio primo panzerotto fritto sul tetto di casa appena scendeva il sole, che ho visto il primo riccio di mare, che ho assaggiato le pesche (precoche) più buone della mia vita,  che ho fatto il mio primo bagno nello Ionio, che sono impazzita per la Burrata e che ho scoperto fave e cicoria. Fave e cicoria. Perdonatemi, ma nel mio cuore questo duo produce un'armonia celestiale. Non c'è piatto che nella sua estrema povertà e semplicità sappia produrre nel mio palato, una tale commozione e gratitudine. Ho imparato questa ricetta grazie a mia suocera, la quale l'ha imparata da suo marito. E per questa e molte altre cose, io gli sono grata. 
Per la preparazione di queste crepes, sono partita da lì, dalla terra di Puglia e nonostante le crepes parlino francese, questa volta la erre si arrotonderà sui profumi del Sud. Non ho usato la cicoria perché non ne ho trovata di buona ma la mia idea era comunque quella di usare delle cime di rapa per un contrasto un po' più amarognolo e con l'idea di valorizzarle con un po' di piccante a fine cottura. Ecco che sono nate le mie CREPES DI FARINA DI CECI CON PUREA DI FAVE BIANCHE E CICORIA STUFATA
Ingredienti per 4 persone:
Per le Crepes
Ho usato la ricetta di Giuseppina, vincitrice dello scorso MTC con una variazione sulla tipologia di farina ma mantenendo le proporzioni da lei indicate, come segue:
- 100 gr di farina di ceci
- 50 gr di farina 0
- 350 ml di latte
- 50 ml di acqua
- 2 uova medie
- 1/2 cucchiaino di sale. 
Ho preparato la pastella come lei spiega perfettamente qui la mattina ed ho cotto le crepes a pranzo. Avendo provato anche la ricetta originale per una seconda ricetta che posterò nei prossimi giorni, posso dire che la farina di ceci contribuisce ad ottenere una crepe più "croccante" ed il sapore è lievemente dolce, tipico di questo legume che io adoro. Ho cotto le crepes come indicato da Giuseppina, utilizzando del burro ghee o chiarificato, che perdonatemi, ma ho trovato ottimo nel mio negozio di fiducia. Onestamente ho preferito saltare questo passo per guadagnare tempo visto la lunga preparazione della farcitura. 
Per quanto riguarda la farcitura, la preparazione del purea di fave bianche richiede del tempo, quindi potrete prepararlo in anticipo scaldandolo al momento di servire le crepes.
Questa è la ricetta che mi ha dato mia suocera:
Per 4 persone
PER LA PUREA
500 gr di fave bianche secche
Una piccola patata
Una piccola cipolla bianca
Uno spicchio d'aglio intero
Una costa di sedano
Un pomodoro maturo
Sale
PER LE CIME DI RAPA
500 gr di cime di rapa freschissime
uno spicchio d'aglio
Olio extra vergine d'oliva
Peperoncino piccante 
Sale 
Prima della cottura, le fave devono essere ammollate in acqua fredda per almeno una notte. Si può aggiungere un cucchiaino di sale o di bicarbonato. 
Sciacquarle bene sotto acqua corrente e mettetele in una casseruola di ghisa o meglio, se la possedete, una pentola di coccio. Copritele con acqua fredda e sempre a freddo aggiungete gli odori: aglio, cipolla affettata grossolanamente, il sedano intero, il pomodoro a metà e la patata sbucciata a dadini. Regolate di sale e fate cuocere a fiamma alta fino a che non comincerà la bollitura, quindi abbassate la fiamma ed eliminata la schiuma via via che si forma. Mescolate con attenzione e se il liquido si riduce, aggiungete acqua calda o brodo vegetale mantenendo il tutto morbido. Quando vedrete che le fave cominciano a sfarsi, eliminate dalla casseruola, lo spicchio d'aglio, il pomodoro (eventualmente le bucce), ed il sedano. Con un cucchiaio di legno mescolate con vigore fino a ridurre il tutto in una purea morbida ed omogenea. Mettete da parte.
Fate cuocere le cime di rapa ben pulite, in abbondante acqua salata e toglietele ancora al dente (5/7 minuti).
Scolatele con attenzione e tenete da parte l'acqua di cottura.
Su una larga padella fate rosolare l'aglio in 3 cucchiai di olio d'oliva quindi buttateci le cime di rapa e fate insaporire. Aggiungete acqua di cottura in modo che non si asciughino troppo e coprite con un coperchio. Fate cuocere per 5 min. c.ca quindi spolverate con un po' di peperoncino e lasciate cuocere per un altro paio di minuti sempre coperte. Se ci fosse bisogno di liquido, aggiungetelo. 
Assemblate adesso le crepes: spalmate senza avarizia la superficie delle crepes con la purea di fave e chiudetele a fazzoletto. Adagiate le cime di rapa calde sui due fazzoletti e servite su un letto di lattughini freschi. 
Con questa ricetta partecipo all'MTC di marzo sulle Crepes






Ed alla raccolta sulla Puglia ospitata dalla Melagranata 




mercoledì 21 marzo 2012

Ultimo Starbooks di Marzo: i Wonderful Welsh Cakes di Jamie

Tea for two - Bahiana
Posso essere un poco dispiaciuta? Con questa ricetta e con quelle delle mie compagne di avventura che avrete modo di visitare più tardi, si chiude l'omaggio fatto a questo splendido libro di Jamie Oliver per lo Starbooks di Marzo. Mi riprometto però fin da adesso, di ritornare su questi passi, perché ci sono alcune irrinunciabili ricette che voglio provare e condividere con voi. Ne riparleremo, dunque. 
Il post di oggi è dedicato ad una tradizione affascinante della cultura anglosassone, ed è l'Afternoon Tea. Io invidio agli inglesi questa fantastica abitudine, perché mi sento molto una donna da afternoon tea. La mia giornata si apre a pieno ritmo e posso dire di essere attivissima e supersmart la mattina ma calo miseramente a partire dalla metà del pomeriggio. Il mio bioritmo si arresta proprio quando ci starebbe bene una pausa fatta di meraviglioso infuso bollente accompagnato da ogni genere di dolcetto, torta o canapè. Purtroppo non posso permettermelo, non sono organizzata in ufficio ed il primo bar più vicino ha una selezione di paste che la Luisona in confronto è 'nu babbà! Però a casa o in viaggio, quando posso me lo concedo ed allora che grande gioia!
Oggi vi presento i Welsh Cake, ovvero dolci gallesi di cui non sono riuscita a trovare notizie in termini di origine o storia. Ma Jamie ne è talmente innamorato da aver dedicato loro ben 2 pagine di splendide immagini ed una introduzione entusiasta. E dopo averli provati, non posso che concordare.
Sappiate che l'impasto di questi dolci altro non è che la base di una frolla a cui è stato aggiunto del lievito (cosa che non farei mai se dovessi pensare ad una crostata o un dolcetto da passare in forno). Il mio stupore è stato leggere che l'impasto non necessita di riposo in frigo e che deve essere cotto "in padella". Il mio primo pensiero è stato: dovrò mangiarmi delle frittelle crude! Errore, errore gravissimo. Intanto perché i Welsh Cakes non sono frittelle, ne pancakes o qualsiasi altra cosa di questo genere. Sono proprio dei dolcetti che all'assaggio sembrano biscotti friabilissimi e leggeri. Il miracolo è stato osservare la cottura. Ho fatto esattamente come consiglia Jamie, testando la temperatura sulla pasta e sono riuscita velocemente a trovare il punto di cottura perfetto. In esatti 4 minuti per lato, come lui indica sul libro. Potete notare anche dalle foto come il lati dei dolcetti siano belli dorati e uniformi. L'interno si cuoce perfettamente e la pasta è di una friabilità fantastica. Per tagliarli bisogna quindi farlo delicatamente e vi confesso che, se con le fragole e la panna sono golosissimi, al naturale, con l'aroma delle spezie che emerge senza aggredire, sono assolutamente strepitosi. 
Ingredienti per preparare 35/40 cakes
500 gr di farina autolievitante (o farina 00 + 1 bustina di baking) + extra per infarinare
75 gr di zucchero semolato + extra per decorare
un cucchiaino raso di misto spezie (noce moscata, cannella, coriandolo, zenzero, chiodi di garofano - si trova facilmente in qualsiasi supermercato)
250 gr di burro freddo non salato
1 pizzico di sale marino
150 gr di uva sultanina 
1 uovo grande da allevamento a terra
un paio di cucchiaiate di latte 
Per il ripieno
300 ml di panna densa (io panna fresca semimontata)
un cucchiaino raso di zucchero semolato
un cucchiaino di semi di vaniglia
400 gr di frutti rossi freschi (fragole e lamponi o mirtilli)
1 limone
Setacciate la farina e versatela in una ampia ciotola ed aggiungete lo zucchero e le spezie. Tagliate il burro a pezzetti e con le dita riducete l'impasto in briciole sottili. Aggiungete la frutta secca (io l'ho fatta ammorbidire un po' in acqua calda prima di aggiungerla) quindi fate la fontana al centro dell'impasto e rompetevi l'uovo. Aggiungete un cucchiaio di latte ed usate una forchetta per sbattere e mescolare le uova con il latte. Una volta miscelati, con le mani pulite impastate il tutto velocemente fino ad ottenere una palla. Se necessario aggiungere anche il resto del latte. 
Mettete una larga padella antiaderente con doppio fondo sulla fiamma media e fatela scaldare.  Nel frattempo stendete la pasta con un matterello infarinando una superficie pulita allo spessore di 1 cm. Usate un coppapasta da 5 cm diametro e tagliate quanti più cerchi riuscite ad ottenere dalla vostra pasta. Rimpastate i ritagli e continuate fino a che non avrete terminato la pasta. Per testare la temperatura cuocete un Welsh cake nella padella per qualche minuto come se fosse un termometro. Se dopo c.ca 4 minuti, la superficie è chiara, alzate un po' la temperatura; se è nera, abbassatela. Aspettate qualche minuto affinché la temperatura si corregga e provate ancora. Quando avrete un cake dorato dopo 4 minuti per ogni lato, sarete nella giusta posizione e potrete continuare a cuocere più cakes insieme avendo tutto sotto controllo.
Appena li toglierete dalla padella, metteteli su una griglia per raffreddarli e cospargeteli di zucchero semolato (io ho usato quello a velo). Li potete servire proprio così come sono. Oppure, potrete fare come ho fatto io, aprendoli delicatamente con un coltello. Montate la panna con lo zucchero e la vaniglia fino a quando avrete dei soffici picchi. Mettete la frutta fresca in una ciotola, affettate le bacchi più grandi e mescolatela con il limone ed un po' di zucchero. Mettete la panna all'interno del cake ed aggiungete la frutta, quindi ricomponete il dolce. Servite
Continuate il vostro afternoon tea time passando dalle mie amiche e compagne di viaggio dove potrete trovare una tazza fumante accompagnata da:
St Clemen's Cake a casa di Menu Turistico
Walnut Banana Loaf a casa di Ale Only Kitchen
Early Grey tea loaf  a casa di Vissi d'Arte e di Cucina
Scottish Shortbread a casa di Insalata Mista
Ad Aprile con il prossimo appuntamento Starbooks....grandiose sorprese! 



lunedì 19 marzo 2012

Donne Straordinarie: Edith Piaf, la voce con dentro la vita. Blanquette de veau à l'ancienne

Hymne à l'amour - Edith Piaf 
Il tema delle strenne del mese di marzo è veramente bellissimo, "Donne Straordinarie", ed io non posso esimermi di partecipare anche alla sfida lanciata da Stefania per le strenne Gluten Free. L'esperienza nel mitico gruppo delle Strenne è stata bellissima ed avendo vinto lo scorso mese, io ci riprovo perché ci ho preso gusto! E ci riprovo parlando ovviamente di 2 donne di musica che amo profondamente, non solo per il loro meraviglioso ed indiscutibile talento, ma soprattutto per il destino che ha segnato le loro vite nel bene e nel male, rendendole icone, miti indiscussi nel mondo della musica e simboli di donne veramente straordinarie. Oggi dedico questo post ad Edith Piaf. Per scoprire chi è la seconda donna di musica nel mio cuore, dovrete aspettare venerdì 30  con la chiusura delle Strennine di marzo.

Quando Edith Piaf sale sul palco dell’Olympia per uno dei suoi ultimi concerti 2 anni prima di morire, dimostra 60 anni pur avendone solo 45: piegata da una terribile forma di artrosi che la costringe per la maggior parte del tempo sulla sedia a rotelle, quasi cieca, fortemente stempiata e pallida, è ancora in grado di mandare in estasi il suo pubblico grazie ad una voce integra, pura, intensamente piena delle mille vite vissute. Quando Edith comincia a cantare, sul palco non c’è più alcun segno di quel fragile essere umano segnato dalla tragedia e dagli eccessi. Quello che il pubblico è in grado di vedere è una magnifica creatura che canta le infinite sfumature dell’amore, che inneggia alla vita grazie ad una voce che contiene il pianto e il riso, la rabbia e il dolore ma anche l’orgoglio e la rivalsa.
Edith assomiglia alla sua Francia e questo il suo pubblico lo riconosce.
Il “passerotto”, la Mome, come è conosciuta universalmente, nasce per strada in tempo di guerra, nel 1915, da un padre artista girovago ed un madre metà italiana e metà berbera, che abbandona entrambi con l’illusione di un successo da solista. 
Cresce dunque in una Francia che cerca disperatamente di dimenticare il conflitto negli eccessi dei folli anni ’20, tra le contraddizioni della bella vita degli artisti e letterati e la miseria devastante del proletariato, della vita di strada affollata da prostitute ed alcolisti. Sopravvive di espedienti ed è probabilmente intorno agli 8 anni che cercando di raccogliere il minimo per nutrirsi, canta la Marsigliese ed incanta i passanti con una voce possente e fiera, anticipando quello che farà per il resto della sua breve vita: cantare.
A 20 anni ne dimostra a malapena 14. Resta incinta molto giovane di un uomo che la spinge a prostituirsi e perde la sua creatura praticamente subito dopo la nascita. Sbarca il lunario cantando nei locali insieme alla sua amica Simone, che le starà accanto tutta la vita e che raccoglierà le sue memorie. Viene notata dall’impresario Leplée, colui che le aprirà la porta al successo inarrestabile. Grazie a lui, si esibisce con Mistinguette, Fernandel, Maurice Chevalier praticamente ancora sconosciuta. Ma è solamente più tardi, grazie al nuovo impresario Raymond Asso, che sarà anche il suo amante per qualche tempo, che Edith diventa Piaf, il passerotto di Francia. Con lui Edith diventa un’icona ed un'interprete ed è proprio con lui che porta al successo “La vie en Rose”, la sua canzone simbolo.
Di lei Jean Cocteau, che ne intuisce l’immenso talento, scrive: «Guardate questo piccolo essere le cui mani sono quelle della lucertola delle pietre. Guardate la sua fronte di Bonaparte, i suoi occhi di cieca che hanno ritrovato la vista. Come farà a far uscire dal suo petto minuto i grandi lamenti della notte? Ed ecco che canta, o meglio, come l’usignolo di aprile prova il suo canto d’amore. Avete ascoltato questo lavorio dell’usignolo? Soffre. Esita. Si schiarisce. Si strozza. Si lancia e cade. E d’improvviso, trova la sua strada. Vocalizza. Sconvolge».
Gli anni di maggiore splendore di Edith Piaf sono paradossalmente quelli cupi del secondo conflitto mondiale: questa donna continua la sua vita a Parigi, lavorando e cantando per i suoi concittadini, ma anche per gli ufficiali tedeschi, i nemici. E’ la vita della Francia, i compromessi, la miseria, le illusioni perdute e la rabbia per il fallimento militare. Una Francia posseduta e calpestata dal nemico che cerca di ritrovare la propria dignità ed identità schiacciata dalla vergogna del collaborazionismo, senza perdere la speranza, trovando una risposta nella voce di Edith. La voce della Francia è la voce di Edith.
Nonostante la lista dei suoi amanti sia lunga e burrascosa come scrive la sua amica Simone, uno dei suoi più grandi e sfortunati amori è quello per il pugile Marcel Cerdan, che incontra a N.Y. durante una tournée e che morirà tragicamente in un incidente aereo. 
Gli ultimi 15 anni della sua vita sono segnati dall’abuso di alcool, droghe, incidenti d’auto gravi causati dal bere e tentativi di suicidio, broncopolmoniti e coma epatici, interventi chirurgici e tentativi di disintossicarsi, che però non le impediscono di continuare a cantare. Nel 1960 porta al delirio l’intero teatro dell’Olympia con il suo manifesto di vita, che sarà anche il suo testamento: “Non, rien de rien, non je ne regrette rien”, non rimpiango nulla, farei tutto nuovamente. Tre anni più tardi morirà consumata dal cancro e dagli eccessi, lasciando un patrimonio di canzoni meravigliose ed uno struggente senso di malinconia e commozione in chiunque, ancora oggi, ascolti la sua indimenticabile voce. 
La ricetta che ho scelto è uno dei piatti mitici della cucina francese, così come Edith lo è della musica e della canzone di questo paese: la Blanquette de veau à l'Ancienne, una sorta di spezzatino di vitello che non viene cotto stufato come abitualmente noi siamo abituati a preparare il nostro, ma bollito a lungo ed accompagnato da verdure "bianche" preparate a parte, che ben si accordano a questa carne rispettandone il gioco cromatico tutto teso verso un candore ed una purezza di base. Perché la Blanquette. In realtà proprio grazie a questo non colore che caratterizza l'intero piatto e che mi ispira un concetto di purezza che si ricollega alla purezza della voce di Edith, mai incerta, mai spezzata, rotta solamente dalle emozioni che era in grado di trasmettere. Il bianco è il non colore che li contiene tutti: la voce di Edith conteneva l'intero caleidoscopio delle emozioni. 
Per chi non ha mai assaggiato la Blanquette, si riservano delle piacevoli sorprese. La carne bollita a lungo abbracciata da molti aromi, diventa un boccone tenero e intensamente profumato che si sposa armoniosamente con i piccoli champignon da cui emerge la freschezza del limone e le tenere cipolline glassate. Una salsa bianca e vellutata accompagna e lega il tutto, che può essere servito con una piccola porzione di riso bianco al vapore nappato generosamente con questa gustosa salsa, il tutto rigorosamente gluten free.  

BLANQUETTE DE VEAU A L’ANCIENNE

Per 6 persone :

Per la Blanquette
1,5 kg di spalla di vitello ridotta a bocconi di 70 gr .c.ca ciascuno
una decina di cipolline borretane
500 gr di champignon bianchi freschi
il succo di un limone
2 cucchiai di zucchero di canna
70 gr di burro + qualche fiocchetto
1 tuorlo d’uovo
70 gr di maizena
2 cucchiai di panna acida
sale e pepe
Per il brodo
1 grossa cipolla bianca su cui infilerete 4 chiodi di garofano
4 spicchi d’aglio
2 carote
1 porro
1 costa di sedano
un bouquet garni con timo, alloro e prezzemolo
sale grosso (c.ca 2 cucchiai)
Disponete i pezzetti di carne in una casseruola riempita di acqua fredda e portate a ebollizione per c.ca 1 minuto per sbiancare la carne e liberarla dalle sue impurità.
Scolate la carne, e mettetela in una casseruola pulita in cui avrete disposto 2 carote, la cipolla con i chidi di garofano, l’aglio, il porro, il sedanto ed il bouquet garni. Coprite il tutto con acqua fredda, aggiungete il sale grosso e portate a ebollizione. Raggiunto il bollore, abbassate la fiamma e lasciate cuocere per c.ca 50 min. eliminando periodicamente la schiuma con un colino.
In una casseruola fate fondere una noce di burro ed aggiungete le cipolline borretane, un bicchiere d’acqua ed i 2 cucchiai di zucchero. Lasciate cuocere a fuoco dolce per c.ca 20 minuti fino a che saranno leggermente dorate. Tenete al caldo.
In una padella antiaderente fate fondere una noce di burro e fate stufare gli champignon per 5/10 minuti con poca acqua ed il succo di limone. Regolate di sale e tenete in caldo.
Quando la carne è cotta, toglietela dal brodo e tenetela in caldo, filtrate il brodo.
Fate fondere 70 gr di burro a fuoco dolce ed aggiungete la stessa quantità di maizena per ottenere un roux bianco. Mescolate bene fino che il burro non sia ben assorbito e che il roux si colori leggermente. Aggiungete il brodo in 3 o 4 volte e mescolate con la frusta fino al limite della bollitura. A questo punto aggiungete la panna acida ed il tuorlo e sbattete vivacemente quindi aggiustate di sale.
In una casseruola aggiungete la carne con le cipolline e gli champignon, condite il tutto con la salsa preparata e rimettete sul fuoco per qualche istante. Servite con del riso bianco abbondantemente nappato con la salsa caldissima.

Con questa ricetta partecipo alla raccolta di Cucina Francese "Chef" in collaborazione con VIDEA



Ed alla raccolta delle Strenne Gluten Free di Marzo 


venerdì 16 marzo 2012

Fiori per un uomo: la torta delle rose

You don't bring me flowers - B. Streisand & N. Diamond
Avete mai regalato fiori ad un uomo? Lo so che è una domanda strana e che c'è stato un periodo in cui faceva molto figo e diverso offrire anche un solo fiore a lui precedendo la mossa galante. La trovo una cosa carina, speciale, ma deve essere spontanea: un solo fiore, magari rubato da un prato, la gemma di un albero o la rosa di una siepe. Trovo commovente il gesto di chi con delicatezza, sistema la rosa nel taschino al proprio amore come al posto nostro hanno fatto le madri o i padri dei nostri futuri mariti un attimo prima che raggiungessero l'altare. Andare a comprare un fiore per un uomo mi metterebbe in imbarazzo, mi toglierebbe naturalezza e finirebbe col sembrarmi un gesto artificioso. In poche parole, i fiori preferirei e preferisco riceverli. 
Ma un uomo speciale nella mia vita meritava un bouquet di fiori e siccome so che l'avrei messo in imbarazzo con dei fiori veri, li ho messi in una torta. Una torta di rose che molte di voi conoscono e che, dopo averla provata per la prima volta, mi ha completamente conquistata. Ho visto spesso questa ricetta su molti blog ed ogni volta ne rimanevo affascinata. Quelle volute strette e gonfie a creare un bouquet color caramello, dall'aspetto incantevole e prezioso. L'unico ostacolo che mi impediva di provare a cimentarmi con questa ricetta è la mia totale inettitudine con i lievitati. E se dico totale, credetemi sulla parola. 
C'è voluto il compleanno di mio padre ed una giornata a casa per assistere alla mia bimba malata. Giornata lenta, tranquilla, lavoro al computer senza l'assillo del telefono ogni due per tre. Ho tempo, posso provare mi sono detta. "Faccio le rose per papà" e l'idea mi si è piazzata in testa con una determinazione tale da rendermi sicura della riuscita. La volevo fare per lui, per un uomo schivo e introverso che per una vita ha passato più tempo con gli animali che con le persone. Mio padre è stato addestratore di cavalli da concorso ippico per 50 anni. Ne ha compiuti 69 quindi fate i vostri conti. Tutt'ora non può stare lontano da loro, li capisce come nessun altro e probabilmente è più abile a comunicare con loro con che noi. E' un uomo molto forte, con un carattere di acciaio, severo e molto geloso della sua famiglia. Ha sempre avuto difficoltà a manifestare i propri sentimenti e spesso questo è stato causa di problemi e contrasti. Ho combattuto spesso con lui da ragazza, lotte furibonde e terribili, ma ciò che posso dire adesso è che forse non aveva torto e riesco persino a mettermi dalla sua parte e capire quanto possa, da padre geloso e possessivo, avere sofferto nel vedere le sue figlie diventare grandi e amare altri uomini oltre lui. 
Vorrei potergli dire quanto ancora lui sia per me l'uomo della mia vita e siccome alla fine gli assomiglio più di quanto io non voglia ammettere, gli dirò che l'amo con delle rose. 
Sono feliceeeee....Che ci crediate o no, ho fatto il mio primo lievitato! No, ho fatto il mio primo lievitato che è uscito come si deve! Non potete capire la frustrazione. Io non ci so fare con i dolci a lunga lievitazione, neanche con focacce o pani o robe simili. Quelle cose lì in casa mia sono di dominio maschile, li fa mio marito e stop! Ho provato con i danesi, con il pan brioche...ma come pensate che possa esserci rimasta osservando un impasto restare immobile come se niente fosse e finire per suicidarsi nella spazzatura? 
Il mio primo lievitato vincente è nato da una ricetta copiata con attenzione dall'ultimo numero di Sale e Pepe e di cui vi riporto qui gli ingredienti:
Ingredienti per 10 persone
585 gr di farina manitoba
25 gr di lievito di birra
85 gr di zucchero
120 gr di latte
120 gr di burro + quello per imburrare
100 gr di nocciole sgusciate
400 gr di marmellata di arance (io ho usato la meravigliosa marmellata di arance, zucca e cardamomo di Cristina)
la scorza di un limone non trattato (io arancia)
75 gr di cedro candito a dadino
75 gr di scorza d'arancio candita a dadini
zucchero a velo
sale 




Sbriciolate il lievito in una ciotola e scioglietelo con 100 ml di acqua tiepida. Unite 135 gr di farina, coprire e fate lievitare la biga per c.ca 30 minuti in luogo tiepido fino a che avrà raddoppiato il suo volume
Setacciate 400 gr di farina in una terrina unendo lo zucchero ed un pizzico di sale, 120 gr di latte tiepido , 3 tuorli, il burro ammorbidito a tocchetti, e la scorza grattugiata del limone. Lavorate bene gli ingredienti e quando avrete ottenuto un impasto liscio ed omogeneo, mettetelo sulla spianatoia spolverizzata con la farina rimasta, ed aggiungete la biga.
Lavorate a lungo (io per almeno 10 minuti), a mano o con l'impastatrice (io ho fatto a mano con un piacere enorme perché l'impasto era molto morbido e malleabile). Mettetelo in una terrina, coprite e fate lievitare per almeno 2 ore.
Nel frattempo tritate le nocciole e sminuzzate i canditi.
Lavorate nuovamente la pasta quind i dividetela in 2 panetti che stenderete con il matterello in 2 rettangoli sottili, uno alla volta. Spalmate su ognuno la marmellata, distribuite metà nocciole e i canditi in maniera omogenea quindi avvolgete la pasta su se stessa in modo da formare un grosso rotolo
Ripetete l'operazione con l'altro panetto e tagliate i 2 rotoli in tanti rotolini alti 2 cm in meno del vostro stampo.
Imburrate uno stampo a cerniera da 24/26 cm di diametro e riempitelo con i rotolini sistemandoli uno accanto all'altro ma un po' distanziati per consentire una ulteriore lievitazione. Coprire e fare lievitare per altri 30/40 minuti. 
Spennellate il dolce con il tuorlo rimasto mescolando con una cucchiaiata di zucchero a velo ed una di latte e quindi mettetelo in forno a 200° per c.ca 20 minuti. Coprire poi con un foglio di alluminio e continuate per altri 30/35 minuti. Lasciatela raffreddare e sformatela. Spolverizzatela con zucchero a velo e con un pennellino lucidate le volute con la marmellata tenuta da parte. 
Il profumo di questa torta vi stordirà. Mi dispiace delle foto. Le rose scure che vedete non sono bruciate ma caramellate solo che la luce non ha reso giustizia. Questa torta è perfetta per chi ama i dolci non troppo dolci. Io me ne sono innamorata. 


Con questa ricetta partecipo al Contest Blog Compleanno del Molino Chiavazza
Ed al bellissimo contest di Dolci ma non Troppo - "Un dolce per i nostri papà"