venerdì 27 maggio 2016

Capunti con favette, porro, toma di montagna e menta e Gente che sa come sognare.

Hallelujah - Jeff Buckley
Qualche giorno fa ho avuto l'onore di essere invitata a tenere una piccola lezione sulla pasta fresca presso un' antica gastronomia della mia città, la Gastronomia Morbidi, di cui ho già parlato in questo post.  
In questo luogo sono passate svariate generazioni di senesi che apprezzano la buona cucina e che considerano il suo banco straripante di delikatessen, un punto fermo quando si voglia stupire ospiti senza dover necessariamente impegnarsi dietro ai fornelli.
La storia di questo posto è affascinante come tutte quelle storie che parlano di destino e di scelte fatte senza pensarci sù, ed è partita da un giovane uomo che alla fine degli anni '20, lasciò un sicuro posto in banca per comprare una latteria.
Molti potranno pensare: follia.
Chiamatela pure follia. A me piace pensare ad altre parole come coraggio, libertà, fantasia e lungimiranza.
Oggi "Il Morbidi" è gestito da Patrizia, figlia di Armando, quel giovane così moderno che più di una florida attività, ha lasciato ai propri eredi la capacità di mettersi sempre in gioco, sfidando le convenzioni ed una città mai troppo pronta al cambiamento.
Patrizia è una donna di inesauribile entusiasmo, con una straordinaria voglia di sognare (e sappiamo da chi ha preso questo dono), che nonostante le difficoltà imposte da una vita con poca voglia di scherzare, riesce a buttare via via un occhio dentro i propri sogni.
In questo vorrei tanto imparare da lei.
La reciproca simpatia e i molti gusti in comune (ma anche alcune divertenti coincidenze anagrafiche, come l'avere lo stesso nome e le stesse iniziali e due Alessandre come sorelle) hanno fatto si che nascesse questo momento ludico di cucina, in cui mi sono potuta buttare nella mia passione di sempre, la pasta fresca, di fronte ad una platea di donne attente e divertite.
Una serata frizzante che è volata in un attimo lasciandomi uno strano senso di vuoto, dove né la fatica o l'emozione provate, riescono a porre rimedio.
Ho imparato nel tempo che stare ad analizzare i sentimenti serve a ben poco e che forse dovremmo imparare ad ascoltare meglio il nostro istinto.
Perseguendo ciò che ci fa stare bene e magari trasformare le nostre vere passioni in qualcosa di diverso.
Non so se ne sarò capace. O forse si.
Per adesso mi auguro che di momenti come questi ce ne siano tanti ancora.
In questa serata dedicata alla pasta, ho raccontato come nascono alcuni formati di cui ho spesso parlato su questo blog: i Cavatelli, i Capunti, i Pici e le Raviole del Plin.
Potrete trovare molte ricette relative a questi temi su questa pagina.
Oggi voglio regalarvi una ricetta semplice, primaverile e gustosa che vede protagonisti i Capunti, facilissimi da fare e sempre grandemente apprezzati.

CAPUNTI CON FAVETTE, PORRO, TOMA DI MONTAGNA E MENTA
Ingredienti per 4 persone

Per i Capunti
400 g di semola di grano duro Senatore Cappelli (grazie Giovanni
250 - 300 dl di acqua tiepida (la quantità varia dall’umidità dell’ambiente e della semola)
1 pizzico di sale

Per il condimento
200 g di favette private della pellicina
2 porri
200 g di toma fresca di latte vaccino
olio extravergine
sale
pepe nero macinato fresco
1 manciata di foglioline di menta fresca
TUTORIAL
1.    Preparate l’impasto. Formate una fontana con la semola sulla spianatoia. Aggiungete al centro l’acqua e il pizzico di sale e cominciate a mescolare con le dita, incorporando piano piano la farina fino a che non comincerà a stare insieme. A questo punto cominciate ad impastare con energia ripiegando la pasta su se stessa e scaricando la forza delle braccia sulle palme delle mani vicino ai polsi. Impastate per almeno 10 minuti e quando la pasta avrà raggiunto una consistenza omogenea ed una superficie liscia e vellutata, avvolgete la palla nella pellicola e lasciatela riposare per almeno 30 minuti.
2.    Per preparare cavatelli, capunti e strascinati si procede in questa fase allo stesso modo. Tagliate un pezzetto di pasta di c.ca 30 g e rotolatela sulla spianatoia per ottenere un cordino lungo e regolare del diametro di c.ca mezzo centimetro. Qualora la pasta non scorra bene sulla spianatoia e sembra avere poco attrito, tenete vicino a voi un canovaccio pulito e umido con il quale inumidire leggermente la base e vostre tue mani e a quel punto riuscirete a tirare la pasta con facilità.
CAPUNTI

      Tagliate il cordino di pasta in pezzetti non più lunghi di 3 centimetri. Appoggiate la punta di indice, medio e anulare su tutta la lunghezza della pasta e premendo con decisione, trascinatela verso di voi. La pasta si arriccerà su se stessa formando uno gnocco lungo e stretto.   
      Continua così fino a terminare la pasta e lascia asciugare i capunti su un canovaccio su cui avrai cosparso della semola.
Pulite ed affettate sottilmente i porri anche nella parte verde.
Versate 3 cucchiai di extravergine in una larga padella antiaderente e fate cuocere a fiamma molto dolce il porro. 
Se necessario aggiungete un mestolino di acqua. Cuocete per c.ca 10 minuti fino a che non saranno molto morbidi. 
Aggiungete le favette private della propria pellicina e continuate la cottura per c.ca 7 minuti, mescolando via via ed aggiungendo acqua se necessario.
Quando le favette saranno cotte ma ancora al dente, aggiustate di sale ed aggiungete 150 g di toma tagliata a dadini molto piccoli.
Il formaggio si scioglierà creando una base cremosa.
Cuocete i capunti in abbondante acqua salata. 
Cuoceranno in 3/4 minuti e appena saliranno a galla saranno pronti.
Scolate i capunti e versateli nella padella con il condimento, aggiungendo le foglioline di menta e facendo saltare appena la pasta.
Impiattate cospargendola del restante formaggio tagliato a dadini, qualche fogliolina di menta e finite con una generosa macinata di pepe.

mercoledì 25 maggio 2016

CHICKEN AND WILD RICE

Black is back - Amy Winehouse
Ogni giorno si impara qualcosa.
Tipo che il riso Venere è nero.
Ma non è solo nero perché la natura lo vuole così. Se ti piace l'idea di comprarlo integrale, il nero è ancora più intenso, a tal punto che si ottiene un effetto "inchiostro di seppia".
Ergo, il riso Venere macchia.
Quindi se pensate di utilizzarlo per sostituire altri risi di questo colore che in nella realtà risi non sono, sappiate che potreste andare incontro ad una sorpresa.
Ed è quello che vi racconto oggi su Starbooks, dove un meraviglioso pollo che voleva vestirsi di giallo, si ritrova nero come Calimero.
Nigella sarà molto delusa!

lunedì 23 maggio 2016

Brownie cheesecake per l'MTC #57: una serie di sfortunati eventi.

Vengo anch'io, no tu no! - E. Jannacci
Stavolta pubblico senza alcuna voglia di farlo.
Perché non sono contenta, livello di soddisfazione minimo e perché quello che volevo pubblicare doveva essere diverso.
In momenti come questo mi viene da pensare che il cibo più di altre cose, risenta del nostro umore e di conseguenza se non ne hai voglia, è inutile incaponirsi: non viene.
Puoi pesare tutti gli ingredienti, disporli in bell'ordine sulla tavola, stamparti un sorrisino entusiasta sulla faccia, ma se sotto sotto, di fare quella cosa ti importa meno di niente, allora puoi star pur certo che lei ti sente e ti verrà da schifo, per non dire altro.
La storia dei miei cheesecake è questa.
Mai come altra sfida, questa mi ha fatto penare.
E non perché abbia chissà quale prevenzione nei confronti di questo dolce, che per altro adoro.
Solo che non doveva arrivare adesso, nel mio momento di maggiore stanchezza.
Poi, visto che sono qui a fare la prefica, per me il cheesecake è uno, con crosta croccante, cotto e basico con salsa di frutti rossi, ovvero NY style, e pensare ad altro mi viene davvero difficile (figuriamoci salato e senza cottura).
Da qui una sorta di blocco del pasticciere, con contorno di mugugnamenti, irritazioni, desideri di fuga, sensi di rigetto e via andare...direi che sono pronta per il lettino dell'analista, per la gioia della Van Pelt che avrà materiale per i suoi premi a venire.
Però cari Fabio e Annalù, che con la vostra proposta avete fatto la gioia di mezza blogosfera e multinazionali a stelle e strisce a botte di formaggio cremoso, il vecchio adagio dice "barcollo ma non mollo" e quasi allo scadere della sfida, mi presento anche io alla festa. In profondo imbarazzo.
Come l'ultimo degli imbucati, senza regalo, e come nei peggiori incubi, senza scarpe.
La realtà vera è che appena è uscita la sfida sui cheesecake, io la mia idea ce l'avevo ed era questa qui:
Doveva essere CAMILLO, il cheesecake alle carote, arancia e mandorle con orange curd al Grand Marnier, per fare il verso alla più nota merendina, e come potete vedere, non racconto storie: l'ho fatto e pure fotografato.
Solo che non mi ha convinto: nonostante la cottura, il riposo, il rispetto di tutte le regole fondamentali, a mio avviso qualcosa non ha funzionato: la crosta era umida, la crema non perfettamente liscia e compatta.
Ho dato la colpa alle carote che magari hanno rilasciato acqua nonostante la strizzatura.
In poche parole, sapore splendido, riuscita pessima.
Con grande beffa, l'orange curd era perfetto!
Il giorno dopo ho buttato tutto nella rumenta e di riprovarci non ho più avuto voglia.
Un colpo all'autostima ed alla volontà già compromessa e mi son detta che avrei lasciato perdere.
Poi arriva mia figlia ed in una domenica sonnacchiosa, devastata dall'allergia, mi chiede supplichevole di farle i brownies.
Quando uno dice che l'MTC è sempre e ovunque: ma se facessi il brownie cheesecake?
Non mi sono inventata niente.
Il web è pieno di versioni di questo dolce e la prima volta che mi è capitato di assaggiarlo è stato a Londra alla Hummingbird Bakery: la sintesi di quanto di più esagerato, eccessivo, e diciamo pure "porco" ci sia della pasticceria anglosassone. Due al prezzo di uno.
Ho messo insieme le due ricette che uso per il NY cheesecake e per i brownies.
Nella mia testa la parte del cheesecake avrebbe dovuto essere più alta, il doppio del brownie, ma ho sbagliato la dimensione dello stampo quindi sono riuscita ad ottenere delle mattonelle la dove avrei voluto delle fette.
Inoltre nella fretta di fotografare e postare, non ho rispettato i tempi di riposto: il dolce non era ancora pronto ed il taglio lo conferma. Per finire, la chantilly alle fragole non è la sua morte.
Molto meglio una composta sempre di fragole o lamponi o frutti di bosco non troppo dolce.
Come vedete, anche stavolta non è andata come doveva!

Ingredienti per uno stampo da 20 (io ho usato uno da 24 - troppo grande). 

Per il brownie
250 g di zucchero
150 g di burro
125 g cioccolato fondente al 50%
3 uova grandi
120 g di farina
25 g di cacao
1 cucchiaio di estratto naturale di vaniglia

Per il cheesecake
250 g di creamcheese (formaggio quark) a temperatura ambiente
250 g di robiola a temperatura ambiente
4 uova grandi
90 g di zucchero
i semi di una bacca di vaniglia.
Accendete il forno a 150°.
Imburrate e foderate il fondo dello stampo con un foglio di carta da forno.
Tritate il cioccolato grossolanamente e fatelo fondere in una bacinella di acciaio a bagno maria, facendo attenzione che l'acqua non tocchi il fondo della bacinella.
Una volta sciolto, aggiungete il butto a cubetti fuori dal fuoco, mescolate in maniera che si sciolga completamente, quindi aggiungete le uova precedentemente sbattute con l'estratto di vaniglia e lo zucchero e mescolate con una frusta per ottenere un un composto omogeneo e fluido.
Aggiungete la farina ed il cacao setacciati e mescolate con un cucchiaio per incorporare perfettamente le polveri.
Versate il composto nello stampo e fate cuocere per 25 minuti.
Fate raffreddare mentre preparate la crema.
Mischiate i formaggi già morbidi insieme allo zucchero ed ai semini di vaniglia, nella ciotola della planetaria con il gancio a foglia.
Velocità media fino a quando non otterrete una crema morbida e omogenea.
Aggiungete un uovo alla volta, già sbattuto e mescolate il tempo giusto per incorporarlo, quindi proseguite con i rimanenti, sempre uno alla volta.
Otterrete una crema omogenea, liscia e vellutata.
Versatela sul brownie ormai tiepido e mettete in forno a 170° per 45 minuti circa.
La superficie dovrà essere dorata, ancora traballante.
Spegnete il forno e lasciate raffreddare completamente dentro il forno con lo sportello leggermente aperto.
Quando il dolce sarà freddo, passatelo in frigo per almeno 4 ore o tutta la notte.
Servitelo con una chantilly alle fragole (che otterrete montando della panna fresca ed aggiungendole una purea di fragole fresche).

Questa è la mia ricetta per la sfida #57 sul Cheesecake di Fabio e Annalù di Assaggi di Viaggio





mercoledì 18 maggio 2016

Torta al cioccolato scura e sontuosa di Nigella: è ancora Starbooks!

Too much Heaven - Bee Gees
Lo Starbooks del mese è tutto per lei, la Regina delle incursioni notturne al frigorifero, del "butta tutto nel mixer e poi cuoci", delle curve ostentate senza paura.
Parlo di Nigella con il suo ultimo "Simply Nigella", che con la la squadra delle agguerrite Starbooker, stiamo passando al setaccio.
Oggi tocca a questa torta, scura, fondente, sontuosa come solo i dolci di Nigella sanno essere.
Siete curiosi di saperne di più?
Allora non vi resta che venire a leggere questo post  a casa Starbooks!
Vi aspettiamo.

lunedì 16 maggio 2016

Non chiamatelo Vitello Tonnato: Giornata Nazionale del Vitel Toné

Make someone happy - Jimmy Durante
 
Alcune ricette entrate di diritto nella mitologia della cucina italiana, perché ogni famiglia, ogni casa, ogni massaia le ha provate e servite almeno una volta nella vita, hanno storie misteriose e complesse.
La loro origine si perde nella storia dei tempi ma spesso succede che la loro genesi avvenga in maniera semplice e naturale. 
In mancanza di documenti o codificazioni scritte, l’uomo finisce per attribuire significati e ragioni totalmente lontane alla verità, dando vita a storie fantasiose.
Quella del Vitel Toné, che noi conosciamo oggi come Vitello tonnato, ha radici probabilmente risalenti al tardo medioevo e comincia da un nome che trae in inganno.
Il Piemonte ed in particolare la zona di Alba sono patria di questo piatto così appetitoso.
Si potrebbe far risalire la nascita di questo ricetta successivamente al periodo della cosiddetta “guerra del sale”, nel XVII secolo, quando Genova, acquisendo un feudo nel savonese, impose un pedaggio oneroso al commercio di sale verso il Piemonte scatenando ad una vera e propria guerra tra il ducato di Savoia (sostenuto dalla Francia) e la città di Genova.
Ma l’ingegno dei Piemontesi, che geograficamente sono da sempre svantaggiati per non avere sbocco sul mare, dette vita ad un astuto espediente per procurarsi il sale così prezioso.
In epoca medievale infatti, il mestiere di “acciugaio” era diventato un’occupazione estremamente redditizia.
Contadini e montanari si recavano fino in Camargue, al delta del Rodano, dove acquistavano il sale a cifre irrisorie rispetto a quelle imposte dal monopolio di Venezia e Genova.
Non potendo però rischiare di farsi scoprire, cominciarono a trasportare il sale in barili sotto strati cospicui di acciughe.
Una volta in patria, rivendevano il sale con massimi guadagni e le acciughe, insaporite e ben conservate, venivano acquistate per pochi soldi.
Ecco che la presenza di questo pesce azzurro così saporito e umile diventa un ingrediente fondamentale in numerosi piatti Piemontesi, tra cui appunto nel Vitel Toné delle origini.
Nel Grande Libro della Cucina Albese (Ed. Famija Albeisa) viene riportata la fedele ricetta di questo piatto tramandata da generazioni di donne langarole e del tonno, come il nome ci suggerisce, nessuna traccia.
L’errore più grande deriva proprio dall’aver ricondotto l’assonanza della parola Toné con il tonno. 
Il termine toné infatti, in dialetto langarolo, deriva dalla parola francese “tanner” che significa “conciare” o “scurire” e che probabilmente si riconduce alla marinatura della carne in acqua e aceto (ma anche al colore della salsa a base di acciughe con cui si nappa la carne una volta cotta).
Per altri invece, si tratterebbe della dizione abbreviata della parola dialettale “mitoné” riferito alla lenta cottura della carne. 
Originariamente avremmo quindi avuto Vitel mitoné che nel tempo si è trasformato in Vitel Toné.
E’ soltanto nel ricettario di Pellegrino Artusi che si legge per la prima volta del Vitello Tonnato ma la sua ricetta riporta una variazione “moderna”, ovvero la presenza di tonno sott’olio che nella vera ricetta Albese, non esiste.
Il sapore della vera salsa toné che troverete in questa ricetta, ricorda il profumo del mare grazie alla presenza delle acciughe ma nulla ha a che vedere con la salsa tonnata che ha imperversato sulle tavole italiane e internazionali tra gli anni 70 e 80.
Questa salsa è un capolavoro di armonia e delicatezza e ricorda uno zabaione salato che meravigliosamente si sposa con la più tenera delle carni.
In occasione della giornata Nazionale del Vitello Tonnato, questo è il mio contributo.
Ma per scoprire tutto, proprio tutto su questa ricetta, vi invito a leggere il post ufficiale che si trova oggi sul Sito dell'Associazione Italiana Food Blogger, scritto e curato dalla sua Ambasciatrice del giorno, Antonella Eberlin del blog Cucino Io 
Numerosi i contributi che vi faranno voglia di preparare ancora una volta questo delizioso e irresistibile piatto per tutte le stagioni. 
Ed ecco la ricetta:

Vitel Toné (dal Grande Libro della cucina Albese)

Ingredienti per 8-10 persone
1 kg di girello di vitello
Vino bianco secco in pari quantità di acqua necessari a coprire la carne
Mezzo bicchiere di aceto bianco
2 foglie di alloro
1 cipolla
2 chiodi di garofano
2 grani di pepe nero
1 pezzo di cannella
10 acciughe dissalate (o sott’olio)
1 tuorlo d’uovo sodo
2 tuorli di uova fresche (o più se si vuole maggiore salsa).
10 capperi
Brodo di carne se necessario
20 g di burro
sale qb
Olio extravergine
1 cucchiaio di farina

Prendete la carne, legatela in modo che non perda la sua forma e mettetela in una ciotola che possa accoglierla con facilità.
Ricopritela con parti uguali di vino bianco secco ed acqua ed aggiungete in fondo mezzo bicchiere di aceto bianco, la cipolla steccata con i chiodi di garofano, la cannella, il pepe e le foglie di lauro.
Coprite la ciotola con un foglio di pellicola e fatela marinare tutta la notte.
Il giorno dopo fate rosolare il burro in una casseruola a fondo spesso. 
Scolate la carne dalla sua marinata, asciugatela e fatela rosolare bene a fuoco vivace su tutti i lati.
Togliete la carne dalla casseruola e a fiamma dolce fate sciogliere le acciughe ben pulite, nel burro. Aggiungete il tuorlo sodo schiacciato bene con la forchetta ed un cucchiaio di farina setacciata. Mescolate bene con un cucchiaio di legno e rimettete la carne nella casseruola.
Aggiungete la marinata senza esagerare, e fate cuocere a fuoco dolcissimo.
Aggiungete la marinata via via che si asciuga e proseguite la cottura coprendo con un coperchio.
Quando la carne sarà cotta e l’intingolo ristretto (con la consistenza di uno sciroppo), toglite la carne e passate al setaccio il liquido.
Aggiungete i capperi tritati al coltello finemente.
Affettate la carne in fettine di c.ca 5 mm di spessore e sistematele sul piatto di portata.
In un recipiente concavo di acciaio, mettete i tuorli ed un cucchiaio di vino bianco per ogni tuorlo.
Con il recipiente a bagno maria facendo attenzione che l’acqua non tocchi il fondo, cominicate a montare il composto con una frusta elettrica.
Aggiungete gradatamente il fondo di cottura già setacciato e se la salsa dovesse sembrare troppo densa, aggiungete qualche cucchiaio di buon brodo di carne.
Quando la salsa sarà ben gonfia, soffice e leggera, togliete dal fuoco e nappate la carne con generosità.
Fate riposare in frigo almeno un’ora prima di servire.


lunedì 9 maggio 2016

Brioche meravigliosa: la Mousseline di Philippe Conticini

Minor Swing - Django Reinhardt
Alcune ricette sono dei veri e propri "tappeti volanti": in un istante, senza che tu ne abbia coscienza, ti precipitano nei luoghi del tuo cuore e ti invadono di emozione, immagini e nostalgia.
Il cibo e la musica hanno su di me questo fortissimo potere.
Per altri magari, le sollecitudini sono diverse: un profumo, una voce, una fotografia...chissà.
Le chiavi per giungere alla profondità del nostro sentire sono variegate e imprevedibili.
Stavolta Parigi, in cui non torno ormai da tre anni (un'eternità), è scoppiata all'improvviso nella mia cucina, grazie a questa straordinaria brioche.
Vi prego di credermi se vi dico che è meravigliosa (non mi sbilancio mai a vanvera).
Chi di voi ha avuto la fortuna di frequentare le boulangerie parigine, sa di cosa parlo: l'intenso profumo di burro misto alla fragranza di aromi che evocano pensieri peccaminosi (il mio più frequente, è quello di essere ritrovata dormiente stremata dai croissant, fra pani, quiche e brioche elegantemente esposti, come il sindaco di Lansquenet nella vetrina di Vianne in "Chocolat").
La colpa di tutto è naturalmente di una persona che in questo un po' mi assomiglia ed il cui entusiasmo per la buona cucina, per la tecnica, la conoscenza ed una visione della vita che mi ha emozionata, stanno tutti nel suo splendido blog: Pasqualina .
Ho incontrato Pasqualina a Paestum, durante Le Strade della Mozzarella ed è stato come se l'avessi sempre conosciuta perché la sua gioia e disponibilità al sorriso, allo scambio divertito, me l'hanno subito resa molto cara.
Come sempre dico, la bellezza di avere un blog sta anche nell'opportunità di incontrare moltissime persone dalla stessa passione, con cui si finisce con l'instaurare un rapporto più profondo durevole nel tempo. E poi si parla di cibo, di cose buone, di ricette magiche.
Esattamente come quella che vedete qui oggi.
Non fate caso alle foto.
Questa è la brioche in assoluto più buona e incredibile che abbia fatto ed assaggiato ad oggi.
Pasqualina me lo aveva detto che la brioche tende a crescere molto ma lo stampo da 30 cm mi sembrava davvero troppo grande, quindi ho usato quello classico.
Ecco: NON LO FATE. Se avete un 30 cm, usate quello perché non otterrete una brioche sghemba e aperta su un lato come è successo a me.
Nonostante non sia bellissima, ho voluto condividerla ugualmente perché posso dire di avere trovato la mia brioche ideale, quella che lascia una leggera patina burrosa sulle dita, che ha una morbidezza che rasenta l'incredibile, che dopo due giorni, passata nel tostapane (se ci arriva), vi stordisce di bontà fragrante, che ha spinto mia figlia a richiedermela a gran voce.
Non ho avuto l'accortezza di "strappare" la brioche dove l'impasto si congiunge: quello è il segreto per osservare la texture "filosa", verticale, simile alla trama del cotone non lavorato...un po' come quando strappate dello zucchero filato.
Mi sono detta che con molta probabilità, la definizione di "Mousseline" voglia proprio riferirsi alla leggerezza della mussola, e mai termine mi è sembrato più perfetto.
Ingredienti per uno stampo da 30 cm.
250 g di farina W 400 (io ho usato la Petra panettone - perfetta) 
40 g di zucchero (io ne ho messi 50 g perché mi piace sentire una punta dolce) 
10 g di lievito di birra fresco (diminuiti a 8 g). 
4 uova fredde di frigo (cca 185 g di uova intere) 
190 g di burro morbido (cercate del burro di altissima qualità - io ho usato del burro danese) 
6 g di sale
una bacca di vaniglia (mia aggiunta)
Per la finitura 
un uovo piccolo sbattuto
due cucchiai di latte
Tenete pronto il burro che dovrà essere morbido.
Rompete le uova ben fredde di frigo in una ciotola. Sbattetele
Aggiungete il lievito sbriciolato e mescolate.
Setacciate la farina nella planetaria, a cui aggiungerete lo zucchero ed il sale e i semi di vaniglia. Applicate il gancio a foglia e mescolate. 
A bassa velocità aggiungete lentamente le uova ed il lievito. 
Quando tutte le uova saranno state versate, aumentate la velocità e lavorate il composto fino a che non sarà incordato, lasciando le pareti della ciotola lucide.
Durante la lavorazione fate attenzione che l'impasto non si scaldi. Dovrà restare entro i 26/27° quindi usate il termometro se lo avete. 
In caso notiate che tende a scaldarsi, interrompete e mettete la ciotola in frigo qualche minuto, quindi riprendete. 
Quando l'impasto sarà incordato (questo dopo c.ca 10/15 minuti), cominciate ad aggiungere il burro, un cucchiaino alla volta, facendolo cadere sulle pareti della planetaria, ed attendendo che sia ben assorbito prima di aggiungere il successivo. Ci metterete una ventina di minuti. 
Quando il burro sarà terminato, continuate ad impastare un altro paio di minuti per omogeneizzare bene il tutto. 
Io ho fatto la prova del "velo" ed era incredibilmente elastico. 
Come potete vedere dalla foto in alto, l'impasto sul gancio, è morbido e filante. 
Al tatto è incredibilmente setoso ma non appiccicoso.
Trasferitelo in una ciotola che coprirete con pellicola e lascerete raddoppiare per c.ca 1h30. 
Passato questo tempo, prendete una spianatoia ed infarinatela quindi versatevi l'impasto e ripiegatelo su se stesso pirlandolo (o usando la tecnica dello stretch and fold) e rimettetelo nella ciotola coperta con pellicola. Lasciate in frigo per 3 ore. 
Fuori dal frigo, dividete l'impasto in 3 o 4 parti dello stesso peso (otterrete un impasto di c.ca 750 g complessivi) e ricavate delle palline (che io ho nuovamente pirlato prima di inserirle nello stampo). 
Coprite lo stampo con carta da forno e sistemate le parti di impasto.
Coprite con pellicola e fate lievitare altre 2 ore, fino a che l'impasto non avrà raggiunto il bordo dello stampo. 
Accendete il forno a 170°.
15 minuti prima di cuocerlo, togliete la pellicola in modo che si formi la cosidetta "pelle".
Sbattete l'uovo con il latte e spennellate bene la brioche quindi mettete in forno per c.ca 35 minuti (potrebbero servirvi 5 minuti in più o in meno, in base al vostro forno).
Togliete la brioche dallo stampo e fate intiepidire su una gratella.
Poi, cercate di non esagerare.


giovedì 5 maggio 2016

Ciambellone Toscano per la Giornata Nazionale dei Dolci da Credenza

Soul food to go - Manhattan transfer
Adoro il suono della parola "credenza".
Mi piace, è musicale, morbido con la zeta sul finale che riporta ad una sensazione di concretezza.
Non ultimo mi ricorda le mie nonne, che la parola credenza la usavano senza parsimonia, perché quello era il luogo in cui mettevano di tutto e dove la me bambina, avrebbe voluto poter infilare le mani curiose.
- Mettilo nella credenza!
- Prendi lo zucchero, là nella credenza!
- Mi sono entrate le formiche nella credenza, dobbiamo togliere tutto!
Questa era l'esclamazione più drammatica e piuttosto frequente in casa di mia nonna Gina, situata in piena campagna sul lago di Garda.
La gestione della credenza nella mia famiglia, ha definito nella mia testa, la personalità delle mie due progenitrici: tanto generosa, liberale e movimentata mia nonna paterna Emma quanto gelosa, reazionaria e circospetta mia nonna materna Gina.
Dall'impossibilità di poter sbirciare ciò che si chiudeva a chiave nella dispensa di nonna Gina, è nato nei bambini che frequentavano la casa all'epoca (i miei cugini, mia sorella ed io), una sorta di mitologia del cibo intoccabile.
Solo lei aveva la chiave, solo lei poteva aprire la credenza, da cui ricordo provenire un profumo antico di farina, mista a zucchero, confetto e noce moscata.
Là dentro stavano chiuse le caramelle che ci dava la sera prima di andare a letto se eravamo stati bravi e là dentro metteva i doni che le portavano gli amici o i figli quando andavano a trovarla.
Lei decideva quando e come distribuire le bontà proibite e non c'era verso di corromperla con uno sguardo languido od una moina.
Non ti degnava della minima attenzione e proseguiva nel suo lavoro.
Nei suoi momenti buoni, ci preparava budino al cioccolato per merenda (rigorosamente fatto con le bustine che nessuno sapeva dove tenesse) e ci concedeva di grattare il fondo della casseruola con il cucchiaio.
La sua severità che tanto mi ha spaventato da bambina ma che altro non era che un vestito indossato per affrontare le difficoltà della vita, mi manca sempre, ancor più delle sue battute fulminanti, dei suoi capelli neri come la pece ed il suo sguardo da bersagliere.
Non ricordo di avere mai visto mia nonna Gina preparare una torta.
Forse anche per questo mio nonno Donato, suo marito, era inguaribilmente goloso.
Ogni volta che salivamo a trovarli, mia madre portava un dolce, spesso il ciambellone perché a mio nonno piaceva prenderne una fetta generosa, spezzarla ed inzupparla nel suo vino.
In Toscana la versione tradizionale del ciambellone, in molte località è chiamato "Corollo", grazie alla sua forma che ricorda una corona.
A Siena ad esempio, abbiamo i Corolli , anche loro caratterizzati dalla forma circolare ma con altra storia.
In casa mia si chiama Ciambellone ed è una classica torta da Credenza, semplice nel gusto da piacere praticamente a tutti.
La caratteristica di questo dolce è l'aroma di anice come vuole la tradizione.
Nel mio caso ho preferito sostituire il liquore d'anice con della grappa, il cui aroma non è persistente e regala comunque un carattere "antico" al risultato finale.
Per la Giornata Nazionale dei dolci da Credenza che il Calendario del Cibo Italiano celebra oggi attraverso il bellissimo post di Paola Sabino del blog Fairies Kitchen, ambasciatrice della giornata, potrete scoprire numerosi dolci da credenza della tradizione italiana.
Adesso invece, passiamo alla ricetta:
Ingredienti per uno stampo a ciambella di 26 cm di diametro.
500 g di farina 00
300 g di zucchero semolato
150 g di burro pomata
4 uova grandi a temperatura ambiente
180 g di latte intero a temperatura ambiente + 2 cucchiai
1 bicchierino di grappa (o liquore d'anice se preferite)
la scorza grattugiata di un limone bio
1 cucchiaino di estratto di vaniglia (mia aggiunta)
16 g di lievito per dolci setacciato
1 pizzico di sale
Metti le uova nella ciotola della planetaria e montale con lo zucchero fino ad ottenere un composto chiaro e spumoso.
Unite la scorza di limone e la vaniglia alle uova montate
Setacciate bene la farina con il sale e inseritela in tre tempi, alternandola con il latte, cominciando dalla farina e terminando con la farina. Fate questa operazione con calma, utilizzando una spatola di gomma per non smontare il composto di uova.
Quando avrete incorporato i due ingredienti, aggiungete il liquore e mescolate sempre con delicatezza.
A questo punto dovrete aggiungere il burro, che deve essere molto morbido e mescolare fino a che non sarà perfettamente incorporato al resto dell'impasto.
In ultima fase, aggiungete il lievito, che avrete sciolto in 2 cucchiai di latte e amalgamatelo all'impasto mescolando bene sempre dall'alto in basso.
Infornate a 180° per c.ca 45 minuti facendo la prova stecchino.
Si conserva morbido se coperto con pellicola ed è perfetto a colazione, merenda, pranzo e cena!



lunedì 2 maggio 2016

Chianti Classico: 300 anni e non sentirli. Il Peposo dell'Impruneta

Country Roads - John Denver
Ogni tot non ben identificato, vengo colta da rigurgiti di orgoglio territoriale e non posso fare a meno di sbandierare al mondo (ehm...al mio modesto seguito) quanto possa considerarmi fortunata a vivere in questa parte d'Italia.
Trovo impossibile l'idea che non si possa amare la Toscana così come non resisto nel mettermi nei panni di quei turisti stranieri che arrivano per la prima volta nella mia provincia e finiscono col ripartire storditi da troppa bellezza.
Uno degli eventi più importanti dell'anno dalle mie parti, sono i 3 secoli di "nascita" del Chianti Classico.
300 anni tondi tondi che scoccheranno esattamente il prossimo 24 settembre ma che per tutto il territorio coinvolto, diventano pretesto per una festa lunga un anno.
La storia racconta che il 24 settembre del 1716, il Granduca Cosimo III De Medici volle definire in maniera ufficiale i confini dei territori vocati alla produzione viticola di alta qualità e fra quelli, individuò anche "Il Chianti" (nella zona che oggi conosciamo come Chianti Classico), definendo così il primo "Territorio di vino".
Per celebrare degnamente la ricorrenza, i soci del Consorzio Chianti Classico, hanno deciso di inoltrare richiesta all'Unesco affinché si riconosca questo territorio come Patrimonio dell'Umanità e personalmente non posso che sperare in un esito positivo.
Oggi si parla del "mio Chianti", quello che conosco e che vorrei ancora scoprire, quello che mi sorprende ogni volta e che non è mai lo stesso grazie ad una natura generosa e mutevole.
Lascerò parlare Lui attraverso le immagini se riesco.
Voi perdonate se potete, certi sbrodolamenti da innamorata.
"Chianti.
Tutti quanti pronunciando il mio nome si riferiscono a quel territorio compreso tra le province di Siena e Firenze, una terra cuscinetto tra due città che si sono a lungo combattute e che tutt'ora restano sospettose e schive l'una nei confronti dell'altra.
Eppure per essere precisi, dovrebbero sempre utilizzare l'aggettivo Classico ed allora si che potrebbero dirsi esperti e corretti.
- Vado nel Chianti -  Si, ma quale? Rufina o Colli Pisani? Colline Fiorentine o Colli Senesi? Colli aretini o Chianti Classico? Precisione ci vuole!
Mi viene la pelle d'oca ogni volta che sento qualcuno raccontare di "spettacolari tour nelle Valli del Chianti".
Ma quali valli e valli! Chiamate le cose con il proprio nome.
Il mio è Chianti Classico!
Sono una terra antica, dura e dispotica.
L'uomo mi ha domato sasso dopo sasso, piantando vigne là dove prima c'era il galestro, coprendo di olivi intere colline e addolcendo l'intricata macchia con cipressi e pini romani.
Quello che oggi il tuo occhio accarezza, è frutto del lavoro centenario di uomini che mi hanno amato tanto da rendermi così bella ed unica.
Il mio sangue è rosso come il vino che scorre dalle mie vigne.
Il mio cuore è verde come il mare dei boschi che da sempre solcano le mie colline.
Ho 300 anni e non li dimostro.
In realtà sono sempre stato qui, dove una volta arrivava il mare (solo 3 milioni di anni fa).
Se vuoi scavare, puoi trovare rocce marine, conchiglie e fossili che te lo raccontano.
Ma a chi arriva, non interessa poi molto sapere della mia lunga vita, piuttosto del mio presente, reso noto dal vino che ha preso il mio nome, dalla quiete romantica dei miei borghi, dal sogno di un "bien vivre" a cui molti si abbandonano.
I miei figli sono nove, ben 4 fiorentini e 5 senesi e si chiamano: S. Casciano e Tavarnelle in Val di Pesa, Greve, Barberino in Val d'Elsa, Castellina, Radda, Gaiole, Castelnuovo Berardenga e Poggibonsi.
Se deciderai di venire a scoprirmi, che tu sia a nord o a Sud, prendi la SS 222, che mi attraversa tutto e quando vorrai perderti, basterà voltare ad uno degli innumerevoli bivi che troverai lungo la strada.
Il mio cuore selvaggio è percorso da strade bianche e polverose che costeggiano vigneti, si tuffano in tunnel di alberi frondosi, salgono irte e scendono in picchiata in fondo alla vallata dove sempre attende silenzioso, un casale.
Potrei dire che non esiste altro luogo al mondo con una così altra concentrazione di Castelli e Fortezze in un territorio così circoscritto. Oltre 15 sulla sola 408, la vecchia Chiantigiana che conduce a Gaiole in Chianti, ma non sorprendetevi se viaggiando continuerete a scoprirne lungo la linea dell'orizzonte.
Il mio è un nobile pedigree: Conti, Marchesi, Principi hanno segnato la mia storia di vicende appassionate e battaglie sanguinarie.
 Dopo tanto viaggiare, non potrai far altro che cercare un posticino dove rinfrancarti con la mia cucina schietta e saporita ed avrai solo l'imbarazzo della scelta. Non ti dimenticare però, di accompagnare il tutto con buon bicchiere di Chianti, magari Riserva! 
Un grande piatto che rende onore al Chianti è sicuramente il Peposo, muscolo di manzo cotto per ore in abbondante vino rosso e strutturato, possibilmente di terra Chiantigiana. 
Gli odori che lo rendono amato da molti e che lo caratterizzano sono generoso pepe nero in grani ed aglio. 
Vi lascio con gran piacere la ricetta, invitandovi a venire nel Chianti Classico tutto l'anno, anche se ci siete già stati, perché c'è sempre un angolo incantevole da scoprire ed un piatto delizioso da provare. 
INGREDIENTI PER 4 PERSONE
600 g di muscolo di manzo (la migliore parte è il reale, economico e perfetto per lunghe cotture)
½ litro di vino rosso, possibilmente di struttura, in questo caso rigorosamente Chianti Classico. 
1 bicchiere d’acqua
1 cucchiaio e mezzo di pepe nero in grani
5/6 spicchi d’aglio in camicia
un bouquet garni con salvia, rosmarino, timo e prezzemolo
Sale q.b.
Riducete il pezzo di carne in uno spezzatino grosso quindi sistematelo in un coccio di terracotta. 
Fate in modo che la carne non sia fredda di frigo; toglietela almeno un’ora prima affinché abbia un minimo di frollatura.
Disponete gli spicchi d’aglio sulla carne e cospargete il tutto con il pepe.
Aggiungete le erbe aromatiche che avrete legato con uno spago da cucina.
Versate il vino sulla carne che dovrebbe esserne quasi coperta.
Coprite il coccio con il suo coperchio e date inizio alla cottura utilizzando uno spargifiamma, a fuoco dolce.
La carne deve cuocere per lungo tempo, fino a 4 ore, e rimestata non troppo frequentemente.
A metà cottura, aggiungete il sale e se necessario, anche un po’ d’acqua affinché il liquido non si asciughi mai del tutto.
A fine cottura la carne sarà tenerissima, con la tendenza a sfaldarsi, ed avrà formato un sontuoso sughetto.
Servitela con del pane toscano abbrustolito ed un bel bicchiere di Chianti.