mercoledì 26 novembre 2014

Il lemon curd più facile del mondo e l'importanza delle basi.

You're so vain - Carly Simon
Ogni tanto bisogna partire dalle basi.
Le basi sostengono, rafforzano, ci identificano.
Se si chiamano basi una ragione ci sarà: senza quelle difficilmente si sta in piedi.
Nel nostro caso, le basi della cucina sono ciò che ci consente successivamente di fare giri pindarici con la fantasia, creare qualsiasi cosa, fare la differenza tra l'essere bravi e l'essere....solo l'essere, và.
Io non mi fermo mai solo alla cucina, ormai avrete imparato a conoscermi.
Per me le basi più importanti sono quelle che distinguono l'essere umano dall'animale.
Sono ciò che fanno la differenza nella società civile ed hanno una definizione unica nella mia personale concezione: pura e semplice educazione.
Educazione. Che bella parola.
Sa di pulito, fresco, ha il profumo del bucato nuovo. Sa di bello.
Il fatto di essere più vicina ai 50 che ai 20, mi autorizza a lamentarmi pubblicamente dell'indiscutibile, efferata, insopportabile e sfacciata maleducazione imperante in qualsiasi momento della nostra giornata. In qualsiasi occasione, situazione, contingenza....l'educazione pare essere all'ultima fase della sua miserrima vita, ed io la piango senza vergogna. Ma forse è già morta ed io non me ne sono accorta.
Questo pensiero mi è piombato addosso con un peso immane dalla lettura della sintesi dell'ultimo consiglio di classe di mia figlia.
I professori lamentano il fatto che i ragazzi non li salutino quando entrano in classe, escono o li incrociano nei corridoi. Una delle tante cose ovviamente.
Il fatto mi ha mandato su tutte le furie.
Così che sono partita con un primo grado a mia figlia minacciandola qualora venissi a sapere che lei ha questo tipo di comportamento (ovviamente non ce l'ha perché la conosco, ma mi sono arrabbiata ugualmente).
Buongiorno, buonasera, arrivederci, grazie. Ma stiamo scherzando?
Ho i nervi a fior di pelle perché a casa mia, se non salutavo quando incontravo qualcuno, partiva lo scappellotto di default e la ramanzina consequenziale.
Oggi i professori si fanno dare del tu. E' normale?
Per me è ancora impossibile riuscire a dare del tu ad una persona appena conosciuta, dalla commessa di 18 anni del negozio di scarpe alla signora over 70 (per le persone di quell'età si sale ad un rispetto superiore che mi verrebbe di usare il Voi).
La maleducazione legata al saluto, al rispetto per coloro a cui ci rivolgiamo, non è purtroppo una manifestazione orale.
Mi capita di ricevere e.mail arroganti, da persone che chiedono informazioni con tono scortese, come se tutto fosse dovuto, con aria di superiorità e "leinonsachisonoio".
Tralasciando la forma in cui sono scritte, la mia domanda è: perché?
Hai forse paura che non ti risponda? Hai fretta e ti fa fatica usare parole come Gentile Signora, la ringrazio, attendo con fiducia....hai il timore che ti prendano i crampi alle dita, che ti venga l'infarto al pollice opponibile? Non lo so.
Guardate che la maleducazione sta ovunque, è talmente invasiva che non ci facciamo più neanche caso e la nostra indifferenza è la materia di cui si nutre. Io sto parlando del saluto, questo sconosciuto, che è proprio una delle basi che fanno la differenza.
Rispondere a qualcuno: "lei è un gran maleducato", ci procurerà probabilmente un bel biglietto espresso per quel paese, ma almeno ci saremo tolti la soddisfazione.
E se lo facessero tutti, partendo col dirlo ai nostri figli (che non sono di vetro ma sanno essere di piombo), ogni volta che si dimenticano le buone maniere, forse qualcosina cambierebbe. O no?
La base che vi regalo oggi in un bel 2 x 1, è la lemon curd più facile e buona che sono riuscita a fare dopo tanto tempo.
Si tratta della ricetta di Delia Smith, presente sul suo Delia's cake, e che ho piacere di condividere.
La lemon curd è propriamente una crema al limone che non prevede l'utilizzo di latte né farina (il limone di per se ha una grande forza addensante), ma giusto uova, zucchero, limone e burro.
E' una crema perfetta per riempire tartelette, per farcire torte, per comporre bicchierini multistrato, per essere sterminata con un cucchiaino direttamente dal vasetto.
Questa di Delia, rispetto ad altre assaggiate, ha un perfetto equilibro del gusto del limone, che se eccessivo, rende la curd a mio avviso immangiabile.
Io l'ho utilizzata per la ricetta della Lemon Griestorte, una torta leggerissima con semolino dalla consistenza impalpabile.
Ingredienti per la lemon curd
110 g di zucchero semolato
3 uova grandi
75 g di ottimo burro
le zeste grattugiate ed il succo di 1 limone grande e mezzo non trattato
Per la Griestorte (6/8 persone)
3 uova grandi separate e a temperatura ambiente
110 g di zucchero semolato
le seste grattugiate di un limone ed il succo della sua metà
50 g di semolino
1 cucchiaio di farina di mandorle
Per il ripieno
150 ml di panna fresca montata
4 cucchiai di lemon curd
zucchero a velo per finire.
Preparate il lemon curd
Mettete le zeste grattugiate e lo zucchero in una ciotola e mescolateli.
In una ciotola sbattete le uova con il succo di limone e versate il tutto sullo zucchero, aggiungete il burro a cubetti e mettete la ciotola su una casseruola con acqua che sobbolle leggermente, facendo attenzione che la base della ciotola non tocchi mai l'acqua.
Mescolate con una frusta e fatelo con continuità fino a che la crema non si sia addensata. Per questo ci vorranno c.ca 20 minuti.
Una volta pronta, copritela con una pellicola a contatto e mettetela a raffreddare.
Preparate la torta.
Separate le uova. Mettete i tuorli nella ciotola della planetaria (potete usare anche la frusta elettrica), aggiungete lo zucchero ed il succo di limone e montate fino a che il composto non si gonfi e diventi pallido. Quando è pronto, aggiungete il semolino con delicatezza, mescolando con una spatola, la farina di mandorle e la scorza di limone e mescolate fino a che tutto non sia perfettamente incorporato.
Dopo questa operazione, montate gli albumi a neve ferma utilizzano la frusta perfettamente pulita e senza tracce di grasso, quindi cominciate ad incorporare gli albumi al composto, utilizzando una spatola di gomma e mescolando sempre dall'alto in basso.
Dividete l'impasto in due tortiere da 18 cm di diametro foderate con carta da forno e cuocete nel forno preriscaldato a 180° per 20/25 minuti fino a che non siano dorati e toccandoli con una leggera pressione al centro, questo perda subito l'impronta.
Lasciateli 10 minuti negli stampi, quindi rovesciateli su una griglia ed eliminate con delicatezza la carta da forno. Non lasciate che il sopra resti a contatto con la griglia perché questo si attaccherebbe. Fate in modo che le due parti possano raffreddare non capovolti.
Una volta assolutamente freddi, piazzate il primo disco sul piatto di portata, spalmate il lemon curdi quindi aggiungete la panna e coprite con il secondo disco.
Spolverate bene con lo zucchero a velo e servite.
Si conserva in un portadolci ermetico in frigo, per massimo 2 giorni.
La lemon curd invece si conserva benissimo anche per 7/10 giorni in un vaso di vetro ermetico.

giovedì 20 novembre 2014

Le Gateau basque: un dolce francese dal nome spagnolo.

Mon coeur s'ouvre a ta voix - Sansone e Dalila - M. Callas
La ricetta di cui vi parlo oggi è sicuramente una delle ricette basche più conosciute ma curiosamente ha origine francese, esattamente Aquitana, della piccola località di Cambo-les-Bains.
Per alterne vicende, è arrivata nei Paesi Baschi dove è diventato il dolce nazionale.
Essendo un dolce di famiglia, nessuna ricetta che troviamo assomiglia all'altra perché in ogni casa si tramanda la propria da generazioni, ma le caratteristiche di base sono sempre le stesse: una frolla croccante ma non secca, un ripieno di crema o confettura di ciliegie nere, il tutto aromatizzato al rum, al limone o alle mandorle amare. Poco importa visto che alla fine gli ingredienti di questo dolce sono pochi, essenziali, semplici, ma proprio per questo, per la riuscita eccellente, devono essere di primissima qualità.
D'altronde, in origine questo dolce non era certo ripieno di crema ma di frutta di stagione.
Le prime tracce di questa ricetta scritta rinvenute a Cambo-les-Bains risalgono al XIX secolo.
Cambo era all'epoca una rinomata località balneare frequentata dal bel mondo ed ovviamente scelta da pasticceri e chef di prestigio come loro meta primaria.
Il quel periodo il dolce si chiamava "biscotx" (biscotto), dal nome di due sorelle pasticciere, "Le Sorelle Biskotx" che vendevano il loro "Dolce di Cambo" fino alla costa atlantica.
Il vero Dolce Basco si conserva all'aria, fuori dal frigo e dura a lungo, anche 8/10 giorni.
Per ottenere questo risultato, bisogna fare particolare attenzione alla cottura, che deve essere lunga in un forno non troppo caldo. In questa maniera la pasta resta croccante ed il ripieno morbido ma non troppo.
Altre astuzie, per ottenere la torta perfetta sono mescolare bene lo zucchero con il burro ma senza sbatterlo, incorporare gli altri ingredienti delicatamente senza lavorarli troppo (come per ogni frolla che si rispetti), lasciare raffreddare bene la crema e far riposare l'impasto al fresco non troppo a lungo per non indurirlo. La crema poi non deve essere troppo liquida affinché non inumidisca il dolce e si conservi bene e a lungo.
La tradizione vuole inoltre che lo stampo sia in vetro per non inumidire il dolce a fine cottura.
E se siete bravi, potete anche tentare di partecipare la concorso del miglior dolce Basco che si tiene a Cambo tutti gli anni la prima domenica di ottobre.
Quella che vi lascio qui è la ricetta del maitre patissier Thierry Bamas.
Una versione magnifica che ho preparato per il compleanno di mia madre (non trovate la foto della fetta perché non potevo portare a cena un dolce già tagliato, no?). Fidatevi sulla parola.
Ingredienti per uno stampo da 23 cm di diametro
Per la frolla
240 g di burro pomata
270 g di zucchero
1 uovo + 2 tuorli
1 tuorlo per la doratura finale
375 g di farina 00
4,5 g di lievito in polvere
1 pizzico di sale
Per la crema
250 ml di latte
60 g di zucchero
30 g di maizena
40 g di burro
50 g di farina di mandorle
2 tuorli
1 stecca di vaniglia
1 cucchiaio di rum
Mischiate a mano senza troppa energia tutti gli ingredienti a temperatura ambiente: prima il burro con lo zucchero, quindi l'uovo intero, i tuorli. Quando il composto sarà omogeneo, aggiungete la farina setacciata e miscelata con il lievito ed il sale. Formate una palla e fatela riposare in frigo almeno 30 minuti (non oltre l'ora sennò diventa durissima).
Per la crema: fate scaldare il latte fino a fremere, con la bacca di vaniglia. Spegnete e lasciate in infusione.
Montate a mano con una forchetta lo zucchero ed i tuorli ed aggiungete la maizena.
Aggiungete un cucchiaio di latte per rompere la crema quindi versatela nel latte caldo ed accendete la fiamma molto dolce.
Mescolate con una frusta ed aggiungete la farina di mandorle, il burro ed il rum. Continuate a mescolare con la frusta fino a che la crema non si ispessirà.
Toglietela dalla casseruola e mettetela in una ciotola coprendola con una pellicola a contatto con la crema. Lasciate la bacca di vaniglia che toglierete una volta fredda.
Stendete la pasta in 2 dischi di 5 mm di spessore.
Con il primo foderate uno stampo coperto di carta da forno. Lasciate sbordare leggermente la pasta e riempite di crema il guscio senza però arrivare a riempirlo. La crema deve restare sotto un cm dal bordo.
Ricoprite il guscio con l'altro disco di pasta e sigillate bene con le dita, quindi con un coltello affilato tagliate la pasta in eccesso.
Spennellate la superficie con il tuorlo sbattuto con un po' d'acqua quindi con la punta di un coltello affilato, tracciate delle losanghe sulla superficie.
Fate cuocere in forno preriscaldato a 160° per 40/50 minuti nella griglia centrale.
La superficie deve essere ben dorata.
Fate raffreddare, sformate e servite a temperatura ambiente.
La torta si conserva bene anche fuori da frigo fino ad una settimana.



lunedì 17 novembre 2014

La Garfagnana ed il suo Farro: un binomio inossidabile

Born to be wild - Steppenwolf
I luoghi della Garfagnana hanno dei nomi che sembrano usciti da un racconto di Tolkien: Isola Santa, Fosciandora, Orrido di Botri, Verrucolette, Gorfigliano, Grotta del Vento....
In effetti, addentrandosi in quel territorio via via più intricato e misterioso, si potrebbe sperare pure di incontrare qualche esserino magico, un folletto, una fata o forse uno strego.
Parlare di Garfagnana senza esserci mai stata non è un gioco.
Ed ecco perché stimolata da Vetrina Toscana, ho deciso di prendere e partire.
Da Siena non è certo un grande viaggio, ma un po' lo è.
Mi sono sentita un'esploratrice solitaria piena di emozione.
Non una guida, un amico ad indicarmi la strada.
Ho deciso che avrei seguito lui, il Serchio, come Dante a suo tempo seguì Virgilio, in un viaggio molto più impegnativo.
Il fiume traccia la via e limita con il suo corso, un territorio che si spinge fino alle Alpi Apuane e l'Appennino Tosco Emiliano confinando con le provincie di Modena e Reggio Emilia.
Una vallata ampia e lunga circondata da rilievi boscosissimi e ricchi di sorprese.
L'errore che spesso si compie parlando di Garfagnana, è includerci Borgo a Mozzano e Barga che invece sono bellissimi borghi di Media Valle (del Serchio).
La Garfagnana, come mi ha insegnato la mia amica Annarita garfagnina doc, comincia ufficialmente a Gallicano: mai affermare che Barga è in Garfagnana perché i Bargagini se la prendono assai.
Uscita a Capannori, ho preso la direzione per Borgo a Mozzano e da quel momento ho tenuto il fiume alla mia destra.
Mi ha seguito tranquillo, a volte inoltrandosi in macchie fitte e scomparendo al mio sguardo, altre calmandosi nei pressi di un ponte o di una polla.
Sarò romantica, ma trovo l'autunno il momento perfetto per visitare qualsiasi luogo, anche solo fosse per la mancanza di turisti (fortuna che sono un'agente di viaggio!).
Ci si sente privilegiati dalla solitudine, dal silenzio, dal ritmo lento della vita locale che adesso non sta più in vetrina, cercando di stupire ed attirare l'attenzione del passante.
Adesso i borghi sono caduti in una sorta di pre-letargo.
Lungo le strade c'è giusto qualche signora con la sporta della spesa e qualche anziano che passeggia con il giornale sotto braccio.
Mi lascio alle spalle Borgo a Mozzano, col suo Ponte del Diavolo e gli alberi di camelie ancora in fiore e proseguo verso la mia destinazione, decisa però a fermarmi a Barga, uno dei borghi più belli d'Italia,  situato in alto, sulla sponda sinistra del fiume.
Cammino in un paese deserto, angoli e scorci incantevoli e mi fermo all'ufficio del turismo a chiedere se c'è un punto panoramico da cui possa fare qualche scatto: "ma al Duomo ovviamente", mi risponde la responsabile guardandomi come uno che abbia appena detto un'eresia.
Così mi arrampico come una capra di montagna su su fino al Duomo (arrampicarsi è la parola giusta).
Arrivo con la vista annebbiata ed il fiato corto ma è proprio qui che ho il primo momento estatico.
Mi affaccio al muretto del piazzale con il bianco e imponente Duomo alle spalle.
Corro con lo sguardo lungo un mare di verde intricato e scuro, interrotto qua e la da sprazzi gialli e rossi e so per certo, che là in fondo dove si alza la nebbia, ci sono le Alpi Apuane che oggi non posso distinguere.
Cerco il fiume, la mia guida. L'ho perso, non c'è.
Nel silenzio avvolgente, lo ascolto ridere più in basso. Scorre e mi aspetta per proseguire.
Arrivo a Castelnuovo Garfagnana.
Un sole inaspettato mi accoglie come se fossi giunta a destinazione.
E' l'ora di pranzo e la cittadina è deserta. Qualche bimbo che torna da scuola, negozi chiusi, un perfetto silenzio rotto soltanto dal rumore dell'acqua che scorre.
Castelnuovo è il centro della Garfagnana e da qui verso nord, su entrambi i versanti appenninico ed apuano, si trovano i luoghi più incantevoli di questo territorio, che raccontano di una storia antichissima e complicata.
Ludovico Ariosto definì Castelnuovo "terra di lupi e di briganti", ispirato evidentemente più dal fascino misterioso e selvaggio del territorio che dalla realtà.
Ma i ritmi della vita in questa valle, sono quelli lenti e saggi della natura e spesso la storia di un posto ce la racconta proprio la sua cucina.
Il privilegio di una posizione geografica non facilissima e limitatamente chiusa,  è quello di poter conservare inalterate nel tempo ricette ed usanze popolari e la Garfagnana è sovrana in questo.
Piatti dai nomi buffi, musicali come i matuffi (gnocchi di farina gialla conditi con abbondante sugo di agnello o funghi o manzo), i manifregoli (il piatto dei cavatori e boscaioli - una polentina di farina di castagne poco salata), gli strappati (tipo di maltagliati di pasta all'uovo conditi con sugo e parmigiano), i frascadei (una farinata di polenta in cui vengono aggiunte verdure e legumi), i necci (focaccine di farina di castagne presenti in altre zone montane come la Lunigiana ed il Mugello), ecc. sono quanto ancora si prepara in casa da queste parti.
Per gentile concessione di S.A. Immagini
Ma come spesso succede quando un territorio è legato a doppio filo ad un prodotto, la Garfagnana non può prescindere dal Farro.
Anzi, per me la Garfagnana è il Farro.
Mi affascina fortemente l'idea che un territorio antico come questo sia custode di una coltura ancora più antica. Il Farro infatti, è il patriarca di ogni graminacea, l'antenato del nostro frumento e dei grani oggi utilizzati.
Si hanno documenti della sua coltivazione fin dal 7000 a.C. in Siria, Mesopotamia ed in gran parte del bacino del Mediterraneo. Nell'antica Roma costituiva il rancio dei soldati.
Soltanto con l'avvento del grano duro, questo nobile e sano cereale ha subito un momento di crisi.
Per gentile concessione di S.A. Immagini
Crisi che non ha mai conosciuto in questo territorio, dove il Farro è stato coltivato senza interruzione per millenni ed ha quindi mantenuto inalterate le caratteristiche del Triticum Dicoccum delle origini, rendendolo unico e distinguibile dal Farro coltivato in altre aree.
Tutt'oggi questo cereale viene raccolto e brillato in antichi mulini a pietra presenti in molti paesi della Garfagnana.
Nel 1996 il Farro della Garfagnana ha ricevuto la denominazione IGP dall'Unione Europea.
I requisiti fondamentali per la produzione di questo prezioso cereale sono proprio legati al territorio: deve essere seminato su terreni poveri di elementi nutritivi, tra i 300 ed i 1000 metri di altitudine s.l.m. in periodo autunnale.
Successivamente cresce rigoglioso senza l'aiuto di elementi chimici.
Il Farro della Garfagnana è una pianta rustica e forte che nel tempo ha sviluppato la capacità di resistere alle difficoltà sia climatiche che parassitarie e si può, a ragione, considerare un prodotto biologico.
La raccolta avviene d'estate.
La granella di farro, staccata dalle piccole spighe, deve essere privata dalle pellicine che rivestono il chicco, vale a dire in termini tecnici deve essere "brillata".
Il prodotto che compriamo noi è infatti Farro brillato, pronto ad essere cucinato senza difficoltà.
Ho voluto preparare due ricette con questo cereale, entrambe legate alla stagione autunnale.
Una creativa e dall'aspetto diciamo "raffinato" ed una terrena, rustica e molto vicina alla tradizione ma anche al mio modo di "sentire" il Farro, che resta in ogni caso un prodotto buono, nella sua piena accezione del termine.
Buono perché sano, benefico per il nostro organismo in quanto ricchissimo di fibre, leggero e digeribile. Interessante perché assolutamente versatile in cucina ed adatto a piatti per tutte le stagioni.
MINI PIE DI FARRO CON ZUCCA, PORCINI E SALSICCIA DI CINTA
Ingredienti per 4 tortini
Per la frolla salata
200 g di farina di farro
125 g di burro freddo
20 g di parmigiano grattugiato
1 uovo medio sbattuto
Per il ripieno 
200 g di zucca gialla a polpa soda, privata della buccia
100 g di porcini freschi
2 salsiccie fresche di Cinta senese
150 g di Farro IGP della Garfagnana
2 spicchi d'aglio
un rametto di rosmarino
Olio Extravergine di Lucca Dop
2 uova medie + 1 tuorlo
70 ml di panna fresca
40 g di parmigiano grattugiato
un rametto di timo
sale - pepe nero macinato fresco.
Preparate la frolla mettendo la farina in un mixer con le lame, insieme al burro freddo a cubetti ed il parmigiano.
Frullate con il pulse ed aggiungete l'uovo quando la farina avrà una consistenza briciolosa.
Interrompete non appena la pasta comincerà a stare insieme formando una palla.
Raccogliete l'impasto, avvolgetelo nella pellicola trasparente. Schiacciatelo appena e mettete in frigo per almeno 30 minuti.
Preparate il ripieno.
Sciacquate e cuocete il farro per 20 minuti in acqua bollente salata. Scolate e fate raffreddare.
Tagliate la zucca a dadini.
Fate scaldare due cucchiai di extravergine con uno spicchio d'aglio ed un ramo di rosmarino. Aggiungete la zucca e fatela cuocere nell'olio profumato, aggiungendo qualche cucchiaio d'acqua via via per ammorbidirla e non farla bruciare. Cuocete a fiamma media per c.ca 6/7 minuti.
Aggiustate di sale e mettete da parte per fare raffreddare.
Pulite i porcini privandoli delle radici e con un panno eliminate eventuali residui di terriccio dal cappello  e dal gambo quindi tagliateli a dadi non troppo piccoli.
Cuoceteli in una larga padella a fuoco medio, con uno spicchio d'aglio ed olio extravergine mescolandoli via via che rilasciano l'acqua. Salate solo in fondo ed aggiungete un trito di prezzemolo a fine cottura. Tenete da parte e fate raffreddare.
Private le salsicce della pelle, sbriciolatele e cuocetele nella stessa padella in cui avrete cotto i porcini. Non aggiungete grassi e fatele cuocere fino a che la polpa non sarà bella rosolata ed i grassi si saranno sciolti. Togliete le briciole di salsiccia dalla padella e mettetele su carta assorbente. Fatele raffreddare.
Imburrate ed infarinate 4 pirottini da soufflé e metteteli in frigo.
Stendete la frolla salata su una spianatoia infarinata e tiratela ad uno spessore di 3/4 mm.
Foderate gli stampi freddi facendo in modo che la pasta sbordi un poco quindi cominciate a farcirli con uno strato di farro, porcini, zucca e salsiccia continuando così fino al bordo.
In una ciotola sbattete due uova con la panna, il parmigiano, le foglioline di timo, il pepe macinato fresco ed il sale, quindi versate piano sul ripieno, muovendo i pirottini via via per fare in modo che la crema scenda all'interno.
Preparate i coperchi, stendendo nuovamente la frolla e tagliandola con dei coppapasta dello stesso diametro degli stampi. Al centro fate un buchino di un cm di diametro.
Sistemate il coperchio sugli stampi e sigillate bene pressando con le dita.
Eliminate la pasta in eccesso con un coltellino e spennellate con il tuorlo sbattuto.
Preparate dei piccoli camini di carta da forno ed infilateli nel foro centrale quindi mettete in forno preriscaldato a 180° e cuocete per 30/35 minuti, fino a che le pie non saranno ben dorate.
Fate raffreddare 5 minuti, giusto il tempo per sformarle e servite ancora calde.
ZUPPA DI FARRO E CAVOLO NERO
Ingredienti per 4 persone
300 g di Farro perlato IGP della Garfagnana
300 g di fagioli cannellini (peso da cotti)
1 cespo di cavolo nero grande
1 carota
1 gamba di sedano
1 cipolla rossa di certaldo
3 cucchiai di passata di pomodoro
2 rametti di rosmarino
2 foglie di salvia
Olio extravergine Lucca Dop
Sale - peperoncino a piacere
Mettete a bagno i fagioli la notte precedente.
Cuoceteli nella loro acqua con un rametto di rosmarino ed un pizzico di sale e cuoceteli fino a quando non saranno morbidi ma in forma. Aggiungete acqua via via se necessario.
Togliete metà dei fagioli e l'altra frullatela nella loro acqua per ottenere un brodo.
Fate un trito grossolano con cipolla, carota e sedano.
Fateli passire in 3 cucchiai di olio extravergine molto dolcemente insieme al rosmarino e salvia tritati, quindi quando saranno morbidi (una decina di minuti), aggiungete la passata di pomodoro e fate insaporire per altri 5 minuti.
Quando il fondo sarà pronto, aggiungete il farro precedentemente sciacquato e fatelo brillare per qualche istante, quindi aggiungete il cavolo nero, privato della costa centrale e tagliato a julienne sottile.
Mescolate bene e coprite con il brodo di cannellini.
Proseguite la cottura a fiamma dolce, aggiungendo via via il brodo, per almeno un'ora.
Dopo questo tempo, aggiungete i fagioli e proseguite la cottura per un'altra ventina di minuti.
Se la zuppa dovesse risultare troppo densa, aggiungete del brodo vegetale.
Servite ben calda, accompagnata da crostini di pane, profumata da un generoso filo di extravergine Lucca Dop e del peperoncino se vi piace.

Prodotto fornito da Vetrina Toscana: ristoranti, botteghe ed eventi gastronomici in Toscana


giovedì 13 novembre 2014

Blueberry Muffin for a Perfect Day e per l'Mtc di Novembre.

Perfect Day - Lou Reed
Poco più di un anno fa se ne andava dalla scena musicale mondiale, un artista che ha incarnato senza dubbio l'archetipo di "sex, drugs & rock'n'roll" nell'essere una rock star: Lou Reed.
Ora, non posso affermare di essere una appassionata di musica rock.
Sono solo una persona che ama la musica e che riconosce la presenza del sovrannaturale nel dono o talento (chiamiamolo pure così) in certi esseri molto speciali.
Lou Reed era una di quelle persone.
Certo non lo posso considerare un esempio da seguire per il vissuto assolutamente fuori da ogni schema, sempre alla ricerca del superamento dell'esperienza estrema che fosse attraverso l'utilizzo di droghe di qualsiasi genere, la promiscuità sessuale e l'espressione musicale.
Da ragazzina ricordo che detestavo anche solo vedere la sua faccia perché mi inquietava, mi provocava repulsione.
Adesso che ci ripenso mi viene da ridere ma è solo da qualche anno che l'ho riscoperto ed ho capito quanto invece il suo voler vivere sull'orlo del baratro non sia stato altro che la fuga costante dai fantasmi di un'adolescenza da incubo.
I genitori, una famiglia della buona borghesia ebraica di NY alla fine degli anni 50, pensarono bene di mettere a tacere le sue manifestazioni di bisessualità accompagnando Lou, appena quindicenne, in un ospedale psichiatrico dove venne sottoposto a sessioni continuate di elettroshock. Ed è chiaro come la luce del sole che il trattamento non ebbe il successo sperato.
Gli anni '70 in una NY che stava diventando il centro del mondo in tutti i campi dell'arte e della musica, furono il palcoscenico che lo videro buttarsi a capofitto in una vita dissennata, tra concerti e festini di ogni genere.
Una delle sue frasi più famose, che traccia l'immagine di un uomo dalla grande autoironia ed amaro senso dell'umorismo diceva: "non ho mai avuto giovani che strillavano ai miei concerti. I giovani strillano per David (Bowie, a cui è stato spesso avvicinato come stile musicale) non per me. A me lanciano le siringhe sul palco".
L'amarezza e l'ironia tornano spesso nelle sue canzoni ma oggi, grazie a Francesca ed alla sua sfida meravigliosa, voglio parlare di una canzone in particolare, che credo sia un vero capolavoro da rivalutare nella produzione di questo artista.
PERFECT DAY può essere considerata una "ballad, come la chiamano gli anglosassoni, ovvero un pezzo lento, melodico e spesso con tema d'amore.
Questa piccola canzone è all'interno dell'album Transformer, del 1972, lo stesso che contiene la più famosa e spregiudicata "Walk on  the wild  side"e non è mai stata considerata un pezzo fondamentale della sua produzione.
Io trovo invece che fra le righe di questo testo così intimo, vi sia la sua consapevolezza di una vita eccessiva, sbagliata, un mea culpa silenzioso travestito da lettera d'amore, un rimpianto malcelato ed una malinconia vibrante che ti rapisce attraverso la voce soffiata, incerta e sempre sull'orlo della rottura, marchio di fabbrica di Lou Reed.
Una giornata perfetta, fatta di piccole cose, di momenti "normali" ma proprio per questo assolutamente desiderabili: una sangria nel parco, una giornata allo zoo, il rifugio salvifico e prezioso della casa. La presenza di qualcuno che ti fa sentire migliore, un altro.
Da Lou Reed nessuno si aspettava certo un'ambizione casalinga, ma quella era presente e forse negli ultimi anni, con la sua unione con Laurie Anderson, l'ha raggiunta.
Perfect day si apre con un arpeggio in minore, che all'orecchio pare dissonante e crea immediatamente un mood malinconico.
Il racconto della giornata perfetta avviene attraverso parole semplici, un prosa elementare ed una chiusura che sembra un monito: "you're going to reap just wath you saw" (raccoglierai ciò che semini).
Perfect day è un Blueberry Muffin.
Un classico della tradizione americana e Newyorkese, ma da me leggermente sconvolto come lo era Lou Reed.
Ho voluto il blue dei mirtilli che è il colore della malinconia, del rimpianto, dello spleen.
In più, volevo che a cottura ultimata, vi fossero quei piccoli rivoli di colore che puntualmente queste bacche creano e che ricordano in qualche modo una traccia di dolore, un certo senso di perdita.
L'impasto non è chiaro, dorato come nella versione originale.
Volevo che avesse un'ombra cupa ma non scura e per questo ho usato il brown sugar (in realtà è il bastard suiker che ho comprato ad Amsterdam ma è un modo diverso di chiamare la stessa cosa).
Mi è piaciuta l'idea del brown sugar perché è un po' come l'anima nera del muffin e quella dell'autore della canzone.
Per completare volevo aggiungere qualcosa che portasse un tono di amarezza e per quello ho usato la farina di mandorle con aggiunta di armelline tritate e 2 cucchiai di amaro Ulivar (un amaro calabrese ottenuto dalle olive).
Il tocco finale, l'arpeggio dissonante dell'inizio della canzone che sembra disturbi ma che invece la rende unica, è il cucchiaino di spezie per speculoos. Voi direte "che c'azzecca".
Questo cucchiaino di spezie è il ritorno a casa, il senso di calore, di composta serenità.
La gioia infantile che precede il Natale e che resta dentro di noi come un richiamo ancestrale alla felicità. E in questi muffin è un passo verso la perfezione.
Forse a Lou sarebbe piaciuto.
Prima di passare alla ricetta, vi invito ad ascoltare le due versioni di questa canzone che ho linkato al post. Quella sul titolo è una cover fatta da Lou Reed con un gruppo incredibile di artisti tra cui David Bowie, Elton John, Duran Duran, ecc.
M piace da morire perché è molto diversa dall'originale (più intimista e delicata) ed è un crescendo di energia e positività fino al coro gospel finale che lascia spazio alla chiusura discreta e timida di Reed.
Just a perfect song.
La tecnica per preparare muffin perfetti è spiegata con dovizia e puntualità nel bellissimo post di Francesca che vi invito ad andare a leggere. Io sarò più sintetica. 
Ingredienti per 12 muffin medi
200 g di farina 00
60 g di farina di mandorle
10 g di farina di armelline
100 g di brown sugar
100 ml di latticello
100 g di burro fuso e intiepidito
2 uova medie
8 g di lievito
1/2 cucchiaino di bicarbonato
1 cucchiaino di sale
2 cucchiai di Amaro Ulivar
1 cucchiaino di spezie per Speculoos
150 g di mirtilli
Setacciare con cura le farine un paio di volte.
Questo vi aiuterà nella fase finale, quando dovrete amalgamare gli ingredienti facendolo velocemente e senza lavorare troppo l'impasto.
Pesate e preparate in anticipo gli ingredienti così lavorerete con tranquillità.
In una ciotola ampia, versate le farine setacciate, lo zucchero, gli agenti lievitanti, il sale e le spezie e miscelate con una frusta.
In un'altra ciotola rompete le uova, aggiungete il latticello, il burro fuso, l'amaro e mescolate bene con la frusta per amalgamare il tutto.
Nella ciotola delle farine fate una fontana e versatevi i mirtilli precedentemente lavati ed asciugati, e gli ingredienti liquidi. Con un cucchiaio cominciate a mescolare velocemente, girando la ciotola ad ogni mescolata, e non mescolando più di 10/11 volte.
E' fondamentale che l'impasto resti granuloso e non preoccupatevi se parte della farina non sarà completamente incorporata perché questo avverrà in cottura.
Preparate i pirottini imburrandoli (se di metallo o silicone) o inserendoli in teglie da muffin se di carta. Non mettete mai i pirottini da soli su una teglia piana, perché durante la cottura si spatasceranno miseramente a causa della spinta del lievito.
Mettete la teglia nella griglia centrale del forno preriscaldato a 200°C ed abbassate a 180° una volta chiuso.
Fate cuocere per 20/25 minuti e fate la prova stecchino prima di tirarli fuori. Non aprite assolutamente durante la cottura.
Fate raffreddare su una griglia e conservateli in una scatola ermetica per un paio di giorni.

Con questa ricetta, partecipo all'MTC di Novembre sui Muffin di Francesca.


lunedì 10 novembre 2014

Risotto con pioppini, castagne e Gruyère ed una convinzione da sfatare.

I will I know - W. Houston
Nella classifica dei miei piatti preferiti da sempre, quelli che cucino e mangio con più soddisfazione, ci sono i risotti.
Spesso li trovo così completi e gratificanti che diventano per me un piatto unico.
Nel mio menù settimanale non manca mai un risotto e spesso cucinarlo è anche un pretesto per svuotare il frigo da verdure dall'espressione triste e sconsolata, scampoli di formaggi con crisi d'abbandono e salumi ad un passo dalla depressione.
Scherzi a parti, la versatilità del riso è pari solo a quella della pasta, ma mentre la pasta possiamo "risottarla", alla moda di tanti chef rampanti del momento, se "pastiamo" il riso, l'immagine che mi viene alla mente non è ugualmente accattivante.
Il risotto è un piatto "coccola" per eccellenza: cremoso, leggero, vellutato se preparato alla perfezione. E' elegante e raffinato e lo trovo un intrigante piatto per menù romantici.
Per la sfida proposta da Tery e dai Formaggi Svizzeri, senza andare troppo lontano con la fantasia, ho deciso di preparare un risotto perfettamente autunnale, con ingredienti di stagione come gli adorabili funghi pioppini (o chiodini) e le mie amate castagne che purtroppo quest'anno, a causa della troppa pioggia, sono pochissime e di pessima qualità.
La peculiarità dei pioppini è il loro intenso profumo e la possibilità di utilizzarli interi visto la loro dimensione "lillipuziana".
Restano belli croccanti anche dopo la cottura e regalano ad ogni preparazione uno straordinario aroma di sottobosco.
Le castagne per il tocco dolce e farinoso che a me non dispiace mai, ed una punta di resina intensa regalata dall'olio aromatizzato con le bacche di ginepro.
A legare il tutto, una grattugiata generosa di Gruyère DOP, avvolgente e pieno, che ha donato al piatto una bella spinta cremosa.
Il Gruyère DOP è un formaggio Svizzero universalmente noto. 
La cosa divertente è che se proverete a chiedere a chiunque di parlarvi di GROVIERA come lo chiamiamo noi, la risposta sarà sempre: "è il formaggio coi buchi!"
Ho voluto provare a fare una piccola ricerca in rete e mi sono resa conto con un deciso senso di panico, che non è solo il profano a credere che il Groviera sia il formaggio coi buchi, ma anche moltissimi appassionati di cibo, magazine di cucina, portali, ecc.
Su google immagini, si trovano solo foto con fette di formaggi con i buchi che erroneamente si fanno passare come Groviera.
Eppure questo povero formaggio dall'identità confusa, di buchi non ne ha. 
Forse possiamo parlare di "occhielli" ma anche questi sono piccoli e rari.
Questo favoloso formaggio prodotto nella regione omonima ha una pasta compatta, dal colore avorio con riflessi biondi, una crosta aranciata che acquisisce quel colore grazie alle spazzolature fatte con acqua e sale (procedura che ho trovato in molti altri formaggi di alpeggio).
La consistenza in bocca è morbida e pastosa, a volte quasi "burrosa" ed il sapore di base dolce, vira verso il piccante col passare del tempo.
Dimentichiamoci dei buchi quando parliamo di Groviera: non tutti i formaggi riescono coi buchi!
Ingredienti per 4 persone
300 g di riso Carnaroli
300 g di funghi pioppini
8 castagne lessate con una foglia di alloro
1 piccola cipolla
mezzo bicchiere di Vernaccia di S. Gimignano
50 g di Gruyère Dop grattuggiato finemente
3 bacche di ginepro
Olio extra vergine d'oliva Sarteano Dop
1 litro e mezzo di brodo vegetale
Preparate il vostro brodo di verdura come siete abituati a fare.
Affettate finemente la cipolla e fatela passire dolcemente in 3 cucchiai di extravergine in una larga casseruola antiaderente.
Quando la cipolla sarà trasparente, aggiungete i funghi pioppini che avrete privato delle radici ed avrete pulito con un pennello morbido per eliminare eventuali residui di terriccio. Non li lavate con acqua o perderanno la loro croccantezza.
Mescolate con un cucchiaio di legno delicatamente e fate cuocere per un paio di minuti.
Aggiungete il riso e le castagne lessate sbriciolate grossolanamente, ed alzate la fiamma.
Fate brillare il riso per un minuto c.ca e sfumate con la Vernaccia, mescolando fino a che l'alcool non sarà evaporato.
Riabbassate la fiamma a media temperatura e cominiciate la cottura del riso aggiungendo mestoli di brodo che non dovrà mai "allagare" il riso, ma coprirlo di 2 o 3 mm.
Mescolate via via e continuate ad aggiungere il brodo mano a mano che il riso lo avrà assorbito.
Nel frattempo in un padellino fate scaldare 3 cucchiai di olio extravergine con le bacche di ginepro, al fine di profumarlo.
Quando il riso sarà a cottura, spegnete la fiamma, aggiungete il Gruyère e due cucchiai di olio aromatizzato al ginepro e mantecate con cura.
Attendente un attimo prima di servire affinché tutti gli aromi ed il formaggio creino un composto cremoso, quindi buon appetito.

Con questa ricetta partecipo al Contest " Noi Cheesiamo" in collaborazione con Tery di Peperoni e Patate e i Formaggi Svizzeri



venerdì 7 novembre 2014

Salone del Gusto 2014: la differenza la fanno le persone.

People - B. Straisand
Il Salone è passato in un lampo.
Lo abbiamo aspettato due anni e come tutte le cose belle che si attendono con palpitazione, è durato il tempo di un attimo.
Nella concitazione del momento, fra i chilometri macinati nel ventre di padiglioni senza fine, riesco a mettere insieme dei pensieri soltanto ad acque ferme.
L'emozione sedimenta e resta a galla una sorta di consapevolezza di una banalità disarmante.
Quella stessa che ci accompagna in ogni ambito della nostra vita e che governa le meraviglie della scienza, della tecnologia, di ogni progresso e di ogni scoperta.
Di ogni bontà che troviamo sulle nostre tavole, o tra le foglie di un albero da frutto, nei chicchi di una  spiga di grano e tra i granelli di sale.
La differenza la fanno le persone.
La differenza la fanno le persone.
Hai voglia a parlare di qualità, di eccellenza, della meraviglia di un territorio, della ricchezze di certe aree geografiche e della bontà di certe produzioni.
Hai voglia a parlare di rivoluzioni alimentari, di salvaguardia di prodotti speciali, antichi, rari, sconosciuti, recuperati.
Hai voglia di parlare di cibo sano, di consumo sostenibile, di fame e abbondanza.
La differenza la fanno le persone.
Per ogni meraviglioso filo di extravergine che verserai sul tuo piatto, per quella farina così speciale, profumata e perfetta, per ogni scaglia di quel formaggio che ti porta in bocca il sapore del fieno e delle valli, per ogni frutto della terra, così saporito e sorprendete per il quale ti chiederai "perché non posso trovarlo così anche a casa mia", sappi che la differenza l'ha fatta lui, l'uomo che ha lottato per averlo.
A nulla serve la perfezione della natura senza l'intervento intelligente e rispettoso dell'uomo, senza il suo lavoro incessante, senza la sua ricerca ed il suo sforzo, senza la sua saggezza e lungimiranza.
A nulla servono macchine, strumenti, tecnologia senza una testa dominata da un sogno e da un bisogno.
Per questo il mio sguardo al Salone di quest'anno si è fermato molto più sulle persone che sui prodotti.
Perché questi ultimi sono figli dei primi e non serve a nulla sapere che esistono mille specie diverse di mele se non c'è nessuno che si preoccupa di coltivarle con cura, preservarle al meglio ed portarle sul banchetto di un mercato.
Dentro al Salone mi è sembrato fosse presente una gigantesca concentrazione di questa saggezza e lungimiranza.
Una volontà che non si arrende ad un mondo che corre verso tutt'altra direzione e che in tutta risposta serra i denti nello sforzo e le mani intorno ad un badile.
Dopo aver raccontato i 10 prodotti che avrei voluto trovare al Salone, sintetizzo qui la mia esperienza a Torino per la quale non smetterò di essere grata a Garofalo e Unforketable, il bellissimo progetto costruito intorno alla scuola di Niko Romito (grazie Emidio a te e a tutta la tua meravigliosa banda di entusiasti).
Ho potuto osservare i giovani chef lavorare senza la minima emozione di fronte ad una platea di astanti curiosi e concentrati e mi sono divertita a raccontare un ingrediente nobile come l'acciuga (di cui poi magari vi parlerò in un post a parte).
Adesso ci provo con i dieci sorprendenti incontri al mio ultimo Salone. In ordine rigorosamente causale.
1. L'AGLIO ROSSO DI NUBIA
Non ridete.
Quando ho sentito il nome Nubia, per deformazione professionale ho pensato all'Egitto.
Mai mi sarei aspettata di fare un errore così grossolano. Questo aglio è italianissimo, anzi, per meglio dire, sicilianissimo, per la precisione della zona di Trapani.
Alla vista è di una bellezza intrigante. Io, che detesto cordialmente l'aglio ma che ovviamente non mi esimo nell'usarlo (in maniera parca) quando cucino, ho avuto il desiderio di toccarlo ed annusarne l'intenso profumo.
La testa è rotonda, compatta, quasi perfettamente sferica e non bitorzoluta come l'aglio che siamo abituati a trovare nella grande distribuzione. Tosto, bello con quella sfumatura violetta che emerge dalle tuniche interne nascoste da un velo candido. Viene raccolto a giugno, intrecciato con arte in trecce grandissime (con oltre 100 teste l'una), e così venduto. Dura molti mesi in perfetto stato.
Il suo sapore è intenso, decisamente superiore alla media ed è impiegato con generosità in alcune tra le più rinomate ricette di quest'area, tra cui il pesto alla trapanese e nel celebre cuscus di pescato.
2. IL CACIOCAVALLO DI CIMINA'
Formaggi. Tanti, troppi.
Vi dico che in tre giorni di Salone ho assaggiato più formaggi che qualsiasi altro tipo di alimento.
Perché io amo qualsiasi cosa esca da un caseificio, il mio frigorifero è una riserva inesauribile di cacini ed in questa speciale classifica, vi renderete conto che la mia è una passione malata.
Parliamo di Calabria e di un formaggio a pasta filata che abitualmente si consuma molto giovane, a pochi giorni dalla produzione.
La tradizione locale lo vuole tagliato a fette e cotto sulla griglia, ma attraverso Slow Food (questo caciocavallo è protetto dal presidio) i produttori hanno cominciato a mettere in commercio forme più grandi destinate a stagionature prolungate. Il latte utilizzato per la produzione di questo capolavoro, che gustato fresco ricorda l'erba appena tagliata mente stagionato vira verso la nocciola, è quello di vacche podoliche che vivono allo stato brado e si alimentano di ciò che trovano nel pascolo.
Ho la fortuna di avere assaggiato molti tipi di caciocavallo ad oggi, e quello di Ciminà è sicuramente in cima alle mie preferenze.
3. I CAPRINI DI WHITE LAKE 
Questo formaggio mi ha costato momenti di puro panico durante il mio viaggio di ritorno da Torino in business sul Frecciarossa. A neanche mezz'ora dalla partenza il mio naso sensibilissimo ha cominciato a percepirne l'insofferenza puzzolente nonostante fosse adeguatamente sigillato, sistemato all'interno di una doppia busta e custodito in un grande bagaglio a mano con molte altre cose buone.
Semplicemente lui mi chiamava usando la sua arma fetente.
Quando finalmente l'ho tolto dalla sua prigione una volta a casa, la mia famiglia è fuggita spaventata.
Ma vi garantisco che fra gli acquisti fatti, questo straordinario caprino del Somerset, affinato sotto la cenere, è in assoluto il mio preferito.
Questo prodotto è un altro esempio di come la persona faccia la differenza.
I due mastri caseari Peter Humphries e Roger Longman hanno sperimentato sul latte di capra per anni ottenendo dei prodotti che adesso sono vincitori di premi internazionali.
La produzione di White Lake è limitata al mercato locale ma vi dico che se esportassero, io sarei in prima fila a comprare le loro meraviglie.
4. IL CECE DI CICERALE
Piccolo, direi pure minuto, dal colore giallo dorato con lievi sfumature marroncine, cresce in provincia di Salerno, nel comune di Cicerale, a ridosso del parco Nazionale del Cilento.
L'intensità del suo sapore è indirettamente proporzionale alla sua dimensione e secondo ricerche storiche, furono i romani ad introdurre la coltivazione di questo legume in quest'area, che chiamarono "terra quae cicera alit" ovvero terra che nutre i ceci. Cicerale ha come stemma proprio una piantina di ceci, simbolo della città e della sua fama.
La semina avviene tra marzo e aprile e la coltura non viene bagnata né concimata. La raccolta comincia a luglio e finisce ad agosto e le piantine vengono lasciate seccare al sole stese su sacchi di iuta.
Quando sono secche, si coprono con i sacchi e vengono battute con i bastoni per estrarre i legumi.
Sull'uso del prodotto, la fantasia è tutta vostra ma per quanto mi riguarda, lessato con una foglia di alloro e condito con un ottimo extravergine campano come una DOP del Cilento e macinata di pepe fresco...paradiso.
5. IL SALE DEL FIUME NZOIA
Questo è per me uno dei prodotti più sorprendenti del Salone 2014.
Ciò che vedete spuntare tra le foglie del banano, è sale di fiume.
Per l'esattezza sale del fiume Nzoia nel Kenia occidentale.
Quest'area africana è rimasta per secoli esclusa dalle tradizionali rotte del sale.
Gli abitanti locali hanno sviluppato nel tempo un originale ed ingegnoso metodo per estrarre il sale dalle piante acquatiche che crescono esclusivamente nel fiume Nzoia.
Una volta cresciute, le radici vengono estratte e fatte seccare sulle rocce del fiume. Successivamente bruciate a fuoco lento e le ceneri residue vengono mescolate a lungo nell'acqua calda e filtrate.
L'acqua viene poi fatta bollire in maniera che evapori, lasciando il sale puro sul fondo della ciotola.
Il sale viene raccolto ed "impacchettato" in fogli di banano ed asciugato sotto le ceneri calde durante la notte.
La quantità di sale prodotta serve giusto al fabbisogno locale quindi non è possibile trovare questo incredibile prodotto se non in occasioni come questa. Io l'ho assaggiato e posso dirvi che appena sulla lingua, l'esplosione del salato è immediata e fortissima ma sparisce con la medesima velocità lasciando un sentore resinoso, metallico ed affumicato. Decisamente molto piacevole.
Dal 2009 è Presidio Slow Food e mai come in questo caso il lavoro di questa realtà mi è sembrato più prezioso.
6. LA MELA ROSA DEI MONTI SIBILLINI
E' lei, proprio lei, la mela presente nella mia speciale classifica dei prodotti del desiderio.
L'ho trovata, toccata, annusata e me la sono pure portata a casa, dove è immediatamente finita dentro la pie di Jamie Oliver. 
Le storie meravigliose raccontate dalle mie amiche blogger su questo frutto, sono tutte vere e presto tornerò a parlare di lei perché se lo merita.
7. IL TORRONE DI TONARA
I dolci al Salone non mancano e posso garantirvi che se una telecamera segreta mi avesse anche solo ripresa per mezza giornata, avrebbe registrato il mio viaggio della speranza tra stand di cioccolata, biscotti, panettoni e dolciumi di ogni genere come quello di un tossico che non può fare a meno della sua dose quotidiana.
Per almeno 4 volte sono incappata nella postazione del Torronificio Pili di Tonara, ed ogni volta mi sono fermata, assaggiando di nascosto pezzettini di torrone rivestito di cialda croccante, torrone morbido, friabile, aromatizzato al mirto o al limoncello....alla fine ho trovato il coraggio di fare alcune domande alla signora in costume tradizionale, con la timidezza di un innamorato che rivolge la parola alla sua bella per la prima volta.
Ed ho scoperto cose bellissime: che questo torrone è fra i più rinomati d'Italia; che la famiglia Pili produce torrone dal 1889 grazie alla passione di Tiu Giuanneddu Pili, che girava le sagre dell'isola con il suo carretto.
Adesso, i segreti di quest'arte sono custoditi da Gianni e Patrizia (la deliziosa signora che ha risposto alle mie incessanti domande), una coppia che lavora insieme.
Con entusiasmo, sostenuta dalla comune passione per questo dolce antico e affascinante, la cui preparazione richiede ore di lavorazione e tecnica finissima.
Anche qui se il torrone di Tonara è famoso nel mondo, la differenza l'hanno fatta Gianni e Patrizia, e la faranno i loro figli continuando questa tradizione.
8. IL POMODORINO REGINA DI TORRE CANNE
Il nome di questo pomodorino è estremamente poetico e pare che la ragione di questo appellativo derivi dalla caratteristica del peduncolo che assomiglia ad una piccola corona una volta cresciuto.
Torre Canne è mare, mare di Puglia.
Si parla di alto Salento, di luoghi incantevoli come Ostuni e Fasano, della litoranea sabbiosa e del salmastro che regala a questi frutti dell'orto alcune caratteristiche molto importanti, come la buccia spessa che consente loro la lunga conservazione.
In quest'area la coltivazione dei pomodori cominciò nella seconda metà dell'800, sostituendo quella del cotone, che invece era presente sul territorio da secoli (ed era una enorme risorsa economica).
Dopo che la produzione del cotone divenne di predominio americano ed asiatico, gli abitanti di questa zona diedero al pomodoro ed al grano un grande impulso tutt'ora fondamentali per l'economia della regione.
L'aspetto affascinante è che la coltura del cotone non smise del tutto.
L'uso di coltivare il cotone fra i filari dei pomodori è tutt'ora viva: il cotone prodotto diventa poi la cordicella con cui vengono intrecciati i mazzi di pomodori che vengono poi conservati appesi.
I grappoli di pomodorini regina si chiamano "ramasole".
Tradizione vuole che la ragazza da marito che possiede molte ramasole, sia la più ambita.
Una dote specialissima, più preziosa del corredo! Mica stupidi i pugliesi.
9. IL PANNERONE DI LODI
E' l'ultimo formaggio, promesso, ma è troppo curioso per non parlarvene.
Il Pannerone è chiamato anche "il gigante lodigiano" per la sua stazza importante (12/13 kg di peso a forma, 25/30 cm di diametro per una altezza di 20 cm).
Il suo nome deriva da "panera" che in dialetto locale significa crema di latte o panna.
La sua particolarità, e vi invito ad assaggiarlo se vi capita, è la totale mancanza di salatura sia in produzione che in invecchiamento (che chiamerei più stagionatura, visto che dura non oltre i 10 giorni).
La crosta ha un colore giallo chiaro e la pasta invece è bianco panna, con tanti piccoli "occhielli" diffusi  , molto morbida e profumata.
All'assaggio mi ha lasciata completamente senza parole.
Dopo aver provato formaggi estremamente saporiti, di grande struttura, sapidità ed incredibili sfumature di sapore, ho pensato che questo formaggio non fosse buono.
Cioè avesse dei difetti.
In realtà il Pannerone è un prodotto difficile da capire per il nostro palato non abituato a codificare un formaggio senza sale.
L'impressione che si avverte è una "pseudo dolcezza" che dopo poco vira verso l'amaro, caratteristica di qualità del perfetto Pannerone. Ho scoperto che ci sono estimatori di questo formaggio, e che la sua morte è l'abbinamento con mostarde, uva fresca, confetture, miele aromatico ed anche con distillati di vinacce. Io però non l'ho inserito nella mia collezione di cacini.
10. IL TOPINAMBUR
Beh, lo conoscete tutti lo so.
Finisce nelle nostre vellutate, nelle omelette, in gustose chips fritte, in salse e zuppe, al forno o nel risotto. E' un tubero conosciuto anche come Carciofo di Gerusalemme ed effettivamente il sapore ricorda proprio quello del carciofo.
Io non ho potuto fare a meno di soffermarmi per ammirarlo in tutta la sua bitorzoluta bellezza ed ho trovato che non assomigli per nulla alla radice che a volte mi capita di comprare al supermercato.
Purtroppo la maggior parte delle volte trovo dei topinambur rinsecchiti, piccoli, dal colore spento.  Mi passa la voglia di comprarli.
Preferirei decorare la tavola con un mazzo di quelle margheritone gialle da cui provengono.