People - B. Straisand
Il Salone è passato in un lampo.
Lo abbiamo aspettato due anni e come tutte le cose belle che si attendono con palpitazione, è durato il tempo di un attimo.
Nella concitazione del momento, fra i chilometri macinati nel ventre di padiglioni senza fine, riesco a mettere insieme dei pensieri soltanto ad acque ferme.
L'emozione sedimenta e resta a galla una sorta di consapevolezza di una banalità disarmante.
Quella stessa che ci accompagna in ogni ambito della nostra vita e che governa le meraviglie della scienza, della tecnologia, di ogni progresso e di ogni scoperta.
Di ogni bontà che troviamo sulle nostre tavole, o tra le foglie di un albero da frutto, nei chicchi di una spiga di grano e tra i granelli di sale.
La differenza la fanno le persone.
La differenza la fanno le persone.
Hai voglia a parlare di qualità, di eccellenza, della meraviglia di un territorio, della ricchezze di certe aree geografiche e della bontà di certe produzioni.
Hai voglia a parlare di rivoluzioni alimentari, di salvaguardia di prodotti speciali, antichi, rari, sconosciuti, recuperati.
Hai voglia di parlare di cibo sano, di consumo sostenibile, di fame e abbondanza.
La differenza la fanno le persone.
Per ogni meraviglioso filo di extravergine che verserai sul tuo piatto, per quella farina così speciale, profumata e perfetta, per ogni scaglia di quel formaggio che ti porta in bocca il sapore del fieno e delle valli, per ogni frutto della terra, così saporito e sorprendete per il quale ti chiederai "perché non posso trovarlo così anche a casa mia", sappi che la differenza l'ha fatta lui, l'uomo che ha lottato per averlo.
A nulla serve la perfezione della natura senza l'intervento intelligente e rispettoso dell'uomo, senza il suo lavoro incessante, senza la sua ricerca ed il suo sforzo, senza la sua saggezza e lungimiranza.
A nulla servono macchine, strumenti, tecnologia senza una testa dominata da un sogno e da un bisogno.
Per questo il mio sguardo al Salone di quest'anno si è fermato molto più sulle persone che sui prodotti.
Perché questi ultimi sono figli dei primi e non serve a nulla sapere che esistono mille specie diverse di mele se non c'è nessuno che si preoccupa di coltivarle con cura, preservarle al meglio ed portarle sul banchetto di un mercato.
Dentro al Salone mi è sembrato fosse presente una gigantesca concentrazione di questa saggezza e lungimiranza.
Una volontà che non si arrende ad un mondo che corre verso tutt'altra direzione e che in tutta risposta serra i denti nello sforzo e le mani intorno ad un badile.
Dopo aver raccontato i 10 prodotti che avrei voluto trovare al Salone, sintetizzo qui la mia esperienza a Torino per la quale non smetterò di essere grata a
Garofalo e
Unforketable, il bellissimo progetto costruito intorno alla scuola di
Niko Romito (grazie Emidio a te e a tutta la tua meravigliosa banda di entusiasti).
Ho potuto osservare i giovani chef lavorare senza la minima emozione di fronte ad una platea di astanti curiosi e concentrati e mi sono divertita a raccontare un ingrediente nobile come l'acciuga (di cui poi magari vi parlerò in un post a parte).
Adesso ci provo con i dieci sorprendenti incontri al mio ultimo Salone. In ordine rigorosamente causale.
1. L'AGLIO ROSSO DI NUBIA
Non ridete.
Quando ho sentito il nome Nubia, per deformazione professionale ho pensato all'Egitto.
Mai mi sarei aspettata di fare un errore così grossolano. Questo aglio è italianissimo, anzi, per meglio dire, sicilianissimo, per la precisione della zona di Trapani.
Alla vista è di una bellezza intrigante. Io, che detesto cordialmente l'aglio ma che ovviamente non mi esimo nell'usarlo (in maniera parca) quando cucino, ho avuto il desiderio di toccarlo ed annusarne l'intenso profumo.
La testa è rotonda, compatta, quasi perfettamente sferica e non bitorzoluta come l'aglio che siamo abituati a trovare nella grande distribuzione. Tosto, bello con quella sfumatura violetta che emerge dalle tuniche interne nascoste da un velo candido. Viene raccolto a giugno, intrecciato con arte in trecce grandissime (con oltre 100 teste l'una), e così venduto. Dura molti mesi in perfetto stato.
Il suo sapore è intenso, decisamente superiore alla media ed è impiegato con generosità in alcune tra le più rinomate ricette di quest'area, tra cui il pesto alla trapanese e nel celebre cuscus di pescato.
2. IL CACIOCAVALLO DI CIMINA'
Formaggi. Tanti, troppi.
Vi dico che in tre giorni di Salone ho assaggiato più formaggi che qualsiasi altro tipo di alimento.
Perché io amo qualsiasi cosa esca da un caseificio, il mio frigorifero è una riserva inesauribile di cacini ed in questa speciale classifica, vi renderete conto che la mia è una passione malata.
Parliamo di Calabria e di un formaggio a pasta filata che abitualmente si consuma molto giovane, a pochi giorni dalla produzione.
La tradizione locale lo vuole tagliato a fette e cotto sulla griglia, ma attraverso Slow Food (questo caciocavallo è protetto dal presidio) i produttori hanno cominciato a mettere in commercio forme più grandi destinate a stagionature prolungate. Il latte utilizzato per la produzione di questo capolavoro, che gustato fresco ricorda l'erba appena tagliata mente stagionato vira verso la nocciola, è quello di vacche podoliche che vivono allo stato brado e si alimentano di ciò che trovano nel pascolo.
Ho la fortuna di avere assaggiato molti tipi di caciocavallo ad oggi, e quello di Ciminà è sicuramente in cima alle mie preferenze.
3. I CAPRINI DI WHITE LAKE
Questo formaggio mi ha costato momenti di puro panico durante il mio viaggio di ritorno da Torino in business sul Frecciarossa. A neanche mezz'ora dalla partenza il mio naso sensibilissimo ha cominciato a percepirne l'insofferenza puzzolente nonostante fosse adeguatamente sigillato, sistemato all'interno di una doppia busta e custodito in un grande bagaglio a mano con molte altre cose buone.
Semplicemente lui mi chiamava usando la sua arma fetente.
Quando finalmente l'ho tolto dalla sua prigione una volta a casa, la mia famiglia è fuggita spaventata.
Ma vi garantisco che fra gli acquisti fatti, questo straordinario caprino del Somerset, affinato sotto la cenere, è in assoluto il mio preferito.
Questo prodotto è un altro esempio di come la persona faccia la differenza.
I due mastri caseari Peter Humphries e Roger Longman hanno sperimentato sul latte di capra per anni ottenendo dei prodotti che adesso sono vincitori di premi internazionali.
La produzione di
White Lake è limitata al mercato locale ma vi dico che se esportassero, io sarei in prima fila a comprare le loro meraviglie.
4. IL CECE DI CICERALE
Piccolo, direi pure minuto, dal colore giallo dorato con lievi sfumature marroncine, cresce in provincia di Salerno, nel comune di Cicerale, a ridosso del parco Nazionale del Cilento.
L'intensità del suo sapore è indirettamente proporzionale alla sua dimensione e secondo ricerche storiche, furono i romani ad introdurre la coltivazione di questo legume in quest'area, che chiamarono "terra quae cicera alit" ovvero terra che nutre i ceci. Cicerale ha come stemma proprio una piantina di ceci, simbolo della città e della sua fama.
La semina avviene tra marzo e aprile e la coltura non viene bagnata né concimata. La raccolta comincia a luglio e finisce ad agosto e le piantine vengono lasciate seccare al sole stese su sacchi di iuta.
Quando sono secche, si coprono con i sacchi e vengono battute con i bastoni per estrarre i legumi.
Sull'uso del prodotto, la fantasia è tutta vostra ma per quanto mi riguarda, lessato con una foglia di alloro e condito con un ottimo extravergine campano come una DOP del Cilento e macinata di pepe fresco...paradiso.
5. IL SALE DEL FIUME NZOIA
Questo è per me uno dei prodotti più sorprendenti del Salone 2014.
Ciò che vedete spuntare tra le foglie del banano, è sale di fiume.
Per l'esattezza sale del fiume Nzoia nel Kenia occidentale.
Quest'area africana è rimasta per secoli esclusa dalle tradizionali rotte del sale.
Gli abitanti locali hanno sviluppato nel tempo un originale ed ingegnoso metodo per estrarre il sale dalle piante acquatiche che crescono esclusivamente nel fiume Nzoia.
Una volta cresciute, le radici vengono estratte e fatte seccare sulle rocce del fiume. Successivamente bruciate a fuoco lento e le ceneri residue vengono mescolate a lungo nell'acqua calda e filtrate.
L'acqua viene poi fatta bollire in maniera che evapori, lasciando il sale puro sul fondo della ciotola.
Il sale viene raccolto ed "impacchettato" in fogli di banano ed asciugato sotto le ceneri calde durante la notte.
La quantità di sale prodotta serve giusto al fabbisogno locale quindi non è possibile trovare questo incredibile prodotto se non in occasioni come questa. Io l'ho assaggiato e posso dirvi che appena sulla lingua, l'esplosione del salato è immediata e fortissima ma sparisce con la medesima velocità lasciando un sentore resinoso, metallico ed affumicato. Decisamente molto piacevole.
Dal 2009 è Presidio Slow Food e mai come in questo caso il lavoro di questa realtà mi è sembrato più prezioso.
6. LA MELA ROSA DEI MONTI SIBILLINI
E' lei, proprio lei, la mela presente nella
mia speciale classifica dei prodotti del desiderio.
L'ho trovata, toccata, annusata e me la sono pure portata a casa, dove è immediatamente finita dentro
la pie di Jamie Oliver.
Le storie meravigliose raccontate dalle mie amiche blogger su questo frutto, sono tutte vere e presto tornerò a parlare di lei perché se lo merita.
7. IL TORRONE DI TONARA
I dolci al Salone non mancano e posso garantirvi che se una telecamera segreta mi avesse anche solo ripresa per mezza giornata, avrebbe registrato il mio viaggio della speranza tra stand di cioccolata, biscotti, panettoni e dolciumi di ogni genere come quello di un tossico che non può fare a meno della sua dose quotidiana.
Per almeno 4 volte sono incappata nella postazione del
Torronificio Pili di Tonara, ed ogni volta mi sono fermata, assaggiando di nascosto pezzettini di torrone rivestito di cialda croccante, torrone morbido, friabile, aromatizzato al mirto o al limoncello....alla fine ho trovato il coraggio di fare alcune domande alla signora in costume tradizionale, con la timidezza di un innamorato che rivolge la parola alla sua bella per la prima volta.
Ed ho scoperto cose bellissime: che questo torrone è fra i più rinomati d'Italia; che la famiglia Pili produce torrone dal 1889 grazie alla passione di Tiu Giuanneddu Pili, che girava le sagre dell'isola con il suo carretto.
Adesso, i segreti di quest'arte sono custoditi da Gianni e Patrizia (la deliziosa signora che ha risposto alle mie incessanti domande), una coppia che lavora insieme.
Con entusiasmo, sostenuta dalla comune passione per questo dolce antico e affascinante, la cui preparazione richiede ore di lavorazione e tecnica finissima.
Anche qui se il torrone di Tonara è famoso nel mondo, la differenza l'hanno fatta Gianni e Patrizia, e la faranno i loro figli continuando questa tradizione.
8. IL POMODORINO REGINA DI TORRE CANNE
Il nome di questo pomodorino è estremamente poetico e pare che la ragione di questo appellativo derivi dalla caratteristica del peduncolo che assomiglia ad una piccola corona una volta cresciuto.
Torre Canne è mare, mare di Puglia.
Si parla di alto Salento, di luoghi incantevoli come Ostuni e Fasano, della litoranea sabbiosa e del salmastro che regala a questi frutti dell'orto alcune caratteristiche molto importanti, come la buccia spessa che consente loro la lunga conservazione.
In quest'area la coltivazione dei pomodori cominciò nella seconda metà dell'800, sostituendo quella del cotone, che invece era presente sul territorio da secoli (ed era una enorme risorsa economica).
Dopo che la produzione del cotone divenne di predominio americano ed asiatico, gli abitanti di questa zona diedero al pomodoro ed al grano un grande impulso tutt'ora fondamentali per l'economia della regione.
L'aspetto affascinante è che la coltura del cotone non smise del tutto.
L'uso di coltivare il cotone fra i filari dei pomodori è tutt'ora viva: il cotone prodotto diventa poi la cordicella con cui vengono intrecciati i mazzi di pomodori che vengono poi conservati appesi.
I grappoli di pomodorini regina si chiamano "ramasole".
Tradizione vuole che la ragazza da marito che possiede molte ramasole, sia la più ambita.
Una dote specialissima, più preziosa del corredo! Mica stupidi i pugliesi.
9. IL PANNERONE DI LODI
E' l'ultimo formaggio, promesso, ma è troppo curioso per non parlarvene.
Il Pannerone è chiamato anche "il gigante lodigiano" per la sua stazza importante (12/13 kg di peso a forma, 25/30 cm di diametro per una altezza di 20 cm).
Il suo nome deriva da "panera" che in dialetto locale significa crema di latte o panna.
La sua particolarità, e vi invito ad assaggiarlo se vi capita, è la totale mancanza di salatura sia in produzione che in invecchiamento (che chiamerei più stagionatura, visto che dura non oltre i 10 giorni).
La crosta ha un colore giallo chiaro e la pasta invece è bianco panna, con tanti piccoli "occhielli" diffusi , molto morbida e profumata.
All'assaggio mi ha lasciata completamente senza parole.
Dopo aver provato formaggi estremamente saporiti, di grande struttura, sapidità ed incredibili sfumature di sapore, ho pensato che questo formaggio non fosse buono.
Cioè avesse dei difetti.
In realtà il Pannerone è un prodotto difficile da capire per il nostro palato non abituato a codificare un formaggio senza sale.
L'impressione che si avverte è una "pseudo dolcezza" che dopo poco vira verso l'amaro, caratteristica di qualità del perfetto Pannerone. Ho scoperto che ci sono estimatori di questo formaggio, e che la sua morte è l'abbinamento con mostarde, uva fresca, confetture, miele aromatico ed anche con distillati di vinacce. Io però non l'ho inserito nella mia collezione di cacini.
10. IL TOPINAMBUR
Beh, lo conoscete tutti lo so.
Finisce nelle nostre vellutate, nelle omelette, in gustose chips fritte, in salse e zuppe, al forno o nel risotto. E' un tubero conosciuto anche come Carciofo di Gerusalemme ed effettivamente il sapore ricorda proprio quello del carciofo.
Io non ho potuto fare a meno di soffermarmi per ammirarlo in tutta la sua bitorzoluta bellezza ed ho trovato che non assomigli per nulla alla radice che a volte mi capita di comprare al supermercato.
Purtroppo la maggior parte delle volte trovo dei topinambur rinsecchiti, piccoli, dal colore spento. Mi passa la voglia di comprarli.
Preferirei decorare la tavola con un mazzo di quelle margheritone gialle da cui provengono.