La gallina non è un animale - Cochi e Renato
Non potevo non provare anche la versione di magro.
Nel giorno in cui mi sono data ai plin al brasato, avevo pronta anche la versione "di magro", utilizzando parte degli ingredienti (le coste della bietola) che non erano entrate nella versione di carne.
La velocità con cui si eseguono queste raviole, ti stimola a rifarle e rifarle.
Si congelano con facilità, si porzionano in sacchettini pronti per il pranzo della domenica, ci si sente massaie piene e felici ed anche un po' simili alle nostre mamme e nonne (che però congelavano poco).
Il mio ripieno è rustico, molto semplice e saporito, saltato fuori semplicemente per riciclare dei gambi di bietola che avevo lessato e di cui non sapevo bene cosa fare.
Mi è venuta in mente mia suocera, che con le parti dure delle verdure ci fa "Il pancotto", una delle robe più modeste e più buone mai mangiate.
Mi sono anche detta che la moglie del contadino non poteva scartare niente, che anche i torsoli di pera erano buoni davanti ad una bocca affamata.
E su questo principio ho tirato fuori il mio ripieno povero.
Se posso essere sincera, l'ho amato più di quello ricco!
Le raviole del plin del contadino. Ingredienti per 4 persone
Per la pasta(secondo la ricetta di Elisa)
200 g di farina 00
1 uovo intero grande
2 tuorli grandi
Per il ripieno
100 g di gambi di bietole (peso già lessate)
1 patata grande
1 spicchio d'aglio
200 g di robiola di capra
50 g di pecorino stagionato
un cucchiaino di polvere di rosmarino
la scorza grattuggiata di mezzo limone
un ciuffetto di prezzemolo tritato finemente
olio extravergine qb
sale
pepe nero macinato fresco
Per il condimento
4 cucchiai di olio extravergine
un rametto di timo
un rametto di rosmarino
pecorino stagionato per rifinire
Preparate la pasta come spiega Elisa qui .
Avvolgetela nella pellicola e fatela riposare mentre preparate il ripieno.
Per il ripieno, pelate una patata e dividetela in 4 parti.
Eliminate i filamenti dai gambi di bietola quindi lavateli accuratamente.
Versate la patata ed i gambi in una casseruola con acqua bollente e salata e fate cuocere fino a che la patata non sarà morbida ma non sfatta.
Scolate bene quindi fate scaldare l'olio con uno spicchio d'aglio, lasciate che l'olio si aromatizzi senza far bruciare l'aglio, quindi aggiungete le verdure.
Mescolatele con delicatezza e fatele insaporire bene.
Mettete le verdure nel mixer e riducetele in purea.
Trasferite il composto in una larga ciotola, aggiungete la robiola, il pecorino grattugiato, la polvere di rosmarino, il limone, il sale ed il pepe e mescolate con cura. Aggiustate di sale se necessario.
Tirate la sfoglia sottile con la macchina per la pasta e ricavate delle strisce larghe c.ca 6/7 cm.
Posizionate delle noccioline di ripieno (questo ripieno si presta ad essere porzionato con il sac a poche, ma io non lo avevo) al centro della pasta quindi seguite le spiegazioni che ho dato qui.
Tagliate le vostre raviole secondo il metodo spiegato da Elisa in questo chiarissimo video e buttatele nella capiente pentola dove starà bollendo abbondante acqua salata.
Quando le vostre raviole saranno pronte, saliranno a galla.
Scolate bene ed impiattate.
Conditele con olio extravergine che avrete scaldato con un rametto di timo e rosmarino. Rifinite il piatto con una bella spolverata di pecorino stagionato.
NOTE: In questo ripieno non ho voluto aggiungere l'uovo affinché restasse cremoso dopo la cottura. L'uovo è un addensante che crea anche un aumento di volume del raviolo stesso. In questo caso, il raviolo resta morbido ed il ripieno molto cremoso.
Questa è la mia seconda ed ultima versione per le Raviole del Plin di Elisa per l'MTC di Settembre 2013
venerdì 27 settembre 2013
mercoledì 25 settembre 2013
Quando il ristorante trendy è solo tanta fuffa! Torta al cioccolato Maya.
You're so vain - Carly Simon
Non vado spesso al ristorante.
Vado in pizzeria, in trattoria, all'osteria ed in altri luoghi ameni dove si può mangiare schietto spendendo il giusto.
Andare al ristorante ha per me un significato diverso.
Se decido di cenare in un ristorante, a parte l'occasione lavorativa per cui il ristorante è solo un contorno di qualcosa di più importante, è perché voglio stare bene, voglio sentirmi accolta e benvenuta, voglio provare qualcosa che difficilmente mangerei a casa mia, voglio ricordare un momento speciale. E per questo lo scelgo accuratamente.
Non sono la sola a pensarla così, altrimenti non esisterebbero così tanti ristoranti.
Parte fondamentale per un convivio riuscito è la compagnia.
Personalmente metto cibo e compagnia allo stesso livello.
Dopo mesi di lontananza, sono riuscita con grande gioia a ritrovare le mie amiche di sempre per fare il riassunto delle puntate precedenti.
Non esserci viste da molto tempo, ha fatto si che invece della solita pizza, scegliessimo un ristorante piuttosto alla moda in questo periodo nella nostra città. Per celebrare.
La location del ristorante è impagabile, nel cuore del cuore della città.
Terasse alla francese all'esterno e arredi curati all'interno, con belle stampe appese, tovagliato candido, cristalli e porcellane a la page.
Atmosfera carina che predispone al buonumore.
Abbiamo atteso una decina di minuti prima che il nostro tavolo fosse pronto (non avevamo prenotato), quindi ci siamo sedute ed abbiamo dato sfogo alle nostre chiacchiere.
Desiderosa di sapere la ragione di tanto entusiasmo nei confronti di questo posto, ho cominciato a sfogliare la carta.
Elegante, di cartoncino color panna, leggera, 4 pagine e una scelta di 5 piatti per ogni portata scritte con un font pulito, chic.
Ho immediatamente provato un senso di piacevole tranquillità pregustando una bella serata.
Simona sfoglia la carta dei vini con occhio esperto ed all'unanimità decidiamo per delle bollicine (le solite donne), ma che almeno siano buone.
Così ordiniamo una bottiglia di 'Ca del Bosco ed aspettiamo per il brindisi.
Ca' del Bosco è finito.
Io storgo la bocca, Simona riprende in mano la carta.
Per farla breve, dopo la quinta richiesta negata, riusciamo ad avere una bottiglia di vino che faccia al caso nostro (non senza una spiacevole sensazione nei confronti del prezzo, ovviamente non da Tavernello).
Un rosé francese. Scelto più per tigna che per desiderio.
Ci guardiamo in faccia e ci viene da ridere....a me non tanto perché sotto sotto provo già un senso di fastidio.
Quando si passa all'ordinazione, mi rendo conto che nella lista dei primi piatti, descritti in maniera dettagliata dando risalto ad un eccellente nome di pasta italiana, ci sono almeno tre proposte che contengono tartufo nero (tre su cinque).
Non voglio essere snob perché io adoro il tartufo, quello bianco ovviamente, ma non ho preclusioni per lo scorzone o il marzolino, però tre piatti su cinque a fine agosto, mi sembrano un po' troppi e già la carta perde quel fascino della prima consultazione.
Opto quindi per una delle due ricette che non prevedono tartufo, delle caserecce con pesto e ricotta secca siciliana.
Quando arrivano i piatti, osservo quello delle mie amiche e noto che gli spaghettoni da loro ordinati riempiono la scodella in maniera esagerata.
Non mi piace il colore, né quell'aspetto di mappazzone appiccicoso.
L'odore del tartufo è aggressivo e sovrasta la tavola.
Le mie caserecce invece sono oltre cottura.
Il pesto con nocciole al posto dei pinoli è decisamente ruffiano e l'unico elemento di sapidità del piatto è l'abbondante spolverata di ricotta.
Mangio perché ho una fame che la vedo, ma la mia considerazione nei confronti del ristorante comincia tristemente a scemare.
Intanto beviamo allegramente e a me gira già la testa.
Scegliamo i secondi e decidiamo di prenderne solo due da dividere: piccione e salmone.
Il piccione è buono, glassato e saporito. Il ripieno, servito a parte, decisamente aglioso.
Il salmone, oddio.
Bruttissimo a vedersi. Una parte della pelle bruciata e la polpa asciutta e stopposa, appoggiata su verdure ridotte ad una purea che non ho capito bene, ma sembra già masticata.
Spero a questo punto che almeno il dolce sia degno di nota.
Anche qui ne ordiniamo due: un millefoglie sbriciolato ed una bavarese al caffè.
Il millefoglie ci fa cantare.
Una chantilly generosa, soave, veramente eccellente, fa capolino da strati di sfoglie caramellate e frantumate ad arte. Le facciamo la festa in quattro.
La bavarese è un cubo di colla di pesce senza sapore, con un inquietante strato gelatinoso che viene rimosso con ansia da Laura al primo tentativo di affondare il cucchiaino in quella che avrebbe dovuto essere una crema solida ma cedevole.
Conto: 45 euri a persona per aver mangiato un primo a testa, mezzo secondo e mezzo dolce, e ci siamo tolte la paura.
Se vi ho raccontato questa serata, non è per denunciare il bluff di un ristorante di cui tanti cantano le lodi, ma perché mi sorge una considerazione spontanea.
Qual'è il palato degli italiani?
Perché la maggior parte delle volte che mi viene consigliato un ristorante da grandi mangiatori entusiasti, finisco col rimanerne delusa?
Quello che da molti mi è stato consigliato come ristorante di grido, si è rivelato essere tanta fuffa e poca sostanza. Tanta scena con dietro il nulla.
Se spendo 45 euro per mangiare poco e male, io mi arrabbio come una iena, specialmente quando l'aspettativa è completamente diversa.
Non basta una bella ceramica, una presentazione sbarazzina ed una carta scritta alla maniera dei grandi chef per farmi abboccare.
Ma mi rendo conto tragicamente che per una grande maggioranza di persone non è così.
Che l'italiano medio non è educato alla qualità, che ha un palato addormentato dalla cucina dozzinale e ruffiana, e che nulla può essere cambiato nella ristorazione fino a che non si cambia il palato del consumatore.
C'è una bella differenza tra il dire "là si mangia bene" e poi farlo davvero.
E nell'accoglienza non c'è solo la qualità del cibo che ti viene servito, ma la competenza, la simpatia di chi ti serve, e l'onestà professionale (inutile farsi belli con una carta di vini pomposa ma sguarnita, tanto per dire).
Non vi dirò neanche sotto tortura il nome di quel ristorante, perché lo scopo di questo post non è ovviamente questo.
Vorrei invece che si aprisse un dibattito perché tanto si parla di ristorazione, di cucina, di cibo e tutto questo parlarne rischia di avere l'effetto che ha la sovraesposizione ad immagini che richiamano il sesso: ovvero inevitabile calo del desiderio.
Quindi la mia domanda è: ma l'italiano ha davvero la ristorazione che si merita?
Per addolcirmi la bocca dopo tale delusione, mi sembra giusto lasciarvi con del cioccolato.
Sotto forma di torta.
Che è di una facilità estrema e perfetta per smaltire albumi in deposito.
L'ho trovata sull'inesauribile blog di Pinella e l'ho fatta davvero in un attimo.
Il tempo esatto che è durata!
NOTA: non essendoci indicazione della dimensione dello stampo, io ne ho usato uno da 26 cm di diametro. Ma credo che un 23 sia perfetto per avere più strato, in quanto lo spessore conferisce maggiore umidità all'interno della torta.
Provatela e poi ditemi quanto è buona!
Ingredienti
150 g di cioccolato (io ho usato un fondente al 70%)
150 g di burro ammorbidito
150 gr di zucchero semolato
5 albumi (175 g)
125 g di farina 00 setacciata
la punta di un cucchiaino di lievito per dolci
un pizzico di sale
Accendete il forno a 170°C
Sciogliete il cioccolato a bagnomaria.
Lavorate il burro con 100 g di zucchero fino ad ottenere un composto bianco e spumoso.
Aggiungete il cioccolato ed amalgamate bene
Versate piano la farina, attraverso un setaccio insieme al lievito ed al sale, e lavorate con una spatola.
Montate gli albumi con i restanti 50 g di zucchero ed aggiungeteli al composto di cioccolata, mettendo prima una cucchiaiata di albume per ammorbidire l'impasto ed il resto con estrema delicatezza, sempre dall'alto in basso con una spatola di silicone.
Quando il tutto sarà ben omogeneo, versatelo nello stampo coperto da carta da forno.
Cuocete per c.ca 45 minuti. Fate la prova stecchino, il centro deve restare umido.
Fate raffreddare prima di sformare. Si formerà una crosticina di meringa che si sbriciola con facilità: è il suo bello.
Io l'ho servita capovolta con una spolverata di cacao amaro.
Perfetta con panna semi montata per accompagnarla.
Vado in pizzeria, in trattoria, all'osteria ed in altri luoghi ameni dove si può mangiare schietto spendendo il giusto.
Andare al ristorante ha per me un significato diverso.
Se decido di cenare in un ristorante, a parte l'occasione lavorativa per cui il ristorante è solo un contorno di qualcosa di più importante, è perché voglio stare bene, voglio sentirmi accolta e benvenuta, voglio provare qualcosa che difficilmente mangerei a casa mia, voglio ricordare un momento speciale. E per questo lo scelgo accuratamente.
Non sono la sola a pensarla così, altrimenti non esisterebbero così tanti ristoranti.
Parte fondamentale per un convivio riuscito è la compagnia.
Personalmente metto cibo e compagnia allo stesso livello.
Dopo mesi di lontananza, sono riuscita con grande gioia a ritrovare le mie amiche di sempre per fare il riassunto delle puntate precedenti.
Non esserci viste da molto tempo, ha fatto si che invece della solita pizza, scegliessimo un ristorante piuttosto alla moda in questo periodo nella nostra città. Per celebrare.
La location del ristorante è impagabile, nel cuore del cuore della città.
Terasse alla francese all'esterno e arredi curati all'interno, con belle stampe appese, tovagliato candido, cristalli e porcellane a la page.
Atmosfera carina che predispone al buonumore.
Abbiamo atteso una decina di minuti prima che il nostro tavolo fosse pronto (non avevamo prenotato), quindi ci siamo sedute ed abbiamo dato sfogo alle nostre chiacchiere.
Desiderosa di sapere la ragione di tanto entusiasmo nei confronti di questo posto, ho cominciato a sfogliare la carta.
Elegante, di cartoncino color panna, leggera, 4 pagine e una scelta di 5 piatti per ogni portata scritte con un font pulito, chic.
Ho immediatamente provato un senso di piacevole tranquillità pregustando una bella serata.
Simona sfoglia la carta dei vini con occhio esperto ed all'unanimità decidiamo per delle bollicine (le solite donne), ma che almeno siano buone.
Così ordiniamo una bottiglia di 'Ca del Bosco ed aspettiamo per il brindisi.
Ca' del Bosco è finito.
Io storgo la bocca, Simona riprende in mano la carta.
Per farla breve, dopo la quinta richiesta negata, riusciamo ad avere una bottiglia di vino che faccia al caso nostro (non senza una spiacevole sensazione nei confronti del prezzo, ovviamente non da Tavernello).
Un rosé francese. Scelto più per tigna che per desiderio.
Ci guardiamo in faccia e ci viene da ridere....a me non tanto perché sotto sotto provo già un senso di fastidio.
Quando si passa all'ordinazione, mi rendo conto che nella lista dei primi piatti, descritti in maniera dettagliata dando risalto ad un eccellente nome di pasta italiana, ci sono almeno tre proposte che contengono tartufo nero (tre su cinque).
Non voglio essere snob perché io adoro il tartufo, quello bianco ovviamente, ma non ho preclusioni per lo scorzone o il marzolino, però tre piatti su cinque a fine agosto, mi sembrano un po' troppi e già la carta perde quel fascino della prima consultazione.
Opto quindi per una delle due ricette che non prevedono tartufo, delle caserecce con pesto e ricotta secca siciliana.
Quando arrivano i piatti, osservo quello delle mie amiche e noto che gli spaghettoni da loro ordinati riempiono la scodella in maniera esagerata.
Non mi piace il colore, né quell'aspetto di mappazzone appiccicoso.
L'odore del tartufo è aggressivo e sovrasta la tavola.
Le mie caserecce invece sono oltre cottura.
Il pesto con nocciole al posto dei pinoli è decisamente ruffiano e l'unico elemento di sapidità del piatto è l'abbondante spolverata di ricotta.
Mangio perché ho una fame che la vedo, ma la mia considerazione nei confronti del ristorante comincia tristemente a scemare.
Intanto beviamo allegramente e a me gira già la testa.
Scegliamo i secondi e decidiamo di prenderne solo due da dividere: piccione e salmone.
Il piccione è buono, glassato e saporito. Il ripieno, servito a parte, decisamente aglioso.
Il salmone, oddio.
Bruttissimo a vedersi. Una parte della pelle bruciata e la polpa asciutta e stopposa, appoggiata su verdure ridotte ad una purea che non ho capito bene, ma sembra già masticata.
Spero a questo punto che almeno il dolce sia degno di nota.
Anche qui ne ordiniamo due: un millefoglie sbriciolato ed una bavarese al caffè.
Il millefoglie ci fa cantare.
Una chantilly generosa, soave, veramente eccellente, fa capolino da strati di sfoglie caramellate e frantumate ad arte. Le facciamo la festa in quattro.
La bavarese è un cubo di colla di pesce senza sapore, con un inquietante strato gelatinoso che viene rimosso con ansia da Laura al primo tentativo di affondare il cucchiaino in quella che avrebbe dovuto essere una crema solida ma cedevole.
Conto: 45 euri a persona per aver mangiato un primo a testa, mezzo secondo e mezzo dolce, e ci siamo tolte la paura.
Se vi ho raccontato questa serata, non è per denunciare il bluff di un ristorante di cui tanti cantano le lodi, ma perché mi sorge una considerazione spontanea.
Qual'è il palato degli italiani?
Perché la maggior parte delle volte che mi viene consigliato un ristorante da grandi mangiatori entusiasti, finisco col rimanerne delusa?
Quello che da molti mi è stato consigliato come ristorante di grido, si è rivelato essere tanta fuffa e poca sostanza. Tanta scena con dietro il nulla.
Se spendo 45 euro per mangiare poco e male, io mi arrabbio come una iena, specialmente quando l'aspettativa è completamente diversa.
Non basta una bella ceramica, una presentazione sbarazzina ed una carta scritta alla maniera dei grandi chef per farmi abboccare.
Ma mi rendo conto tragicamente che per una grande maggioranza di persone non è così.
Che l'italiano medio non è educato alla qualità, che ha un palato addormentato dalla cucina dozzinale e ruffiana, e che nulla può essere cambiato nella ristorazione fino a che non si cambia il palato del consumatore.
C'è una bella differenza tra il dire "là si mangia bene" e poi farlo davvero.
E nell'accoglienza non c'è solo la qualità del cibo che ti viene servito, ma la competenza, la simpatia di chi ti serve, e l'onestà professionale (inutile farsi belli con una carta di vini pomposa ma sguarnita, tanto per dire).
Non vi dirò neanche sotto tortura il nome di quel ristorante, perché lo scopo di questo post non è ovviamente questo.
Vorrei invece che si aprisse un dibattito perché tanto si parla di ristorazione, di cucina, di cibo e tutto questo parlarne rischia di avere l'effetto che ha la sovraesposizione ad immagini che richiamano il sesso: ovvero inevitabile calo del desiderio.
Quindi la mia domanda è: ma l'italiano ha davvero la ristorazione che si merita?
Sotto forma di torta.
Che è di una facilità estrema e perfetta per smaltire albumi in deposito.
L'ho trovata sull'inesauribile blog di Pinella e l'ho fatta davvero in un attimo.
Il tempo esatto che è durata!
NOTA: non essendoci indicazione della dimensione dello stampo, io ne ho usato uno da 26 cm di diametro. Ma credo che un 23 sia perfetto per avere più strato, in quanto lo spessore conferisce maggiore umidità all'interno della torta.
Provatela e poi ditemi quanto è buona!
Ingredienti
150 g di cioccolato (io ho usato un fondente al 70%)
150 g di burro ammorbidito
150 gr di zucchero semolato
5 albumi (175 g)
125 g di farina 00 setacciata
la punta di un cucchiaino di lievito per dolci
un pizzico di sale
Accendete il forno a 170°C
Sciogliete il cioccolato a bagnomaria.
Lavorate il burro con 100 g di zucchero fino ad ottenere un composto bianco e spumoso.
Aggiungete il cioccolato ed amalgamate bene
Versate piano la farina, attraverso un setaccio insieme al lievito ed al sale, e lavorate con una spatola.
Montate gli albumi con i restanti 50 g di zucchero ed aggiungeteli al composto di cioccolata, mettendo prima una cucchiaiata di albume per ammorbidire l'impasto ed il resto con estrema delicatezza, sempre dall'alto in basso con una spatola di silicone.
Quando il tutto sarà ben omogeneo, versatelo nello stampo coperto da carta da forno.
Cuocete per c.ca 45 minuti. Fate la prova stecchino, il centro deve restare umido.
Fate raffreddare prima di sformare. Si formerà una crosticina di meringa che si sbriciola con facilità: è il suo bello.
Io l'ho servita capovolta con una spolverata di cacao amaro.
Perfetta con panna semi montata per accompagnarla.
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su di me.,
Torte
lunedì 23 settembre 2013
Biscottoni di farina Verna, con olio extravergine, limone e basilico
La canzone del sole - L. Battisti
Non si finisce ma di imparare.
Ma voi lo sapevate che l'equinozio d'Autunno è il 22 o 23 settembre e non il 21 come ho sempre pensato?
E allora, vi chiederete?
Niente...così. In effetti ieri era una giornata perfettamente estiva per poter dare inizio all'autunno!
Io mi sono messa a biscottare con l'idea di dire arrivederci all'estate, perché i biscotti nella mia testa hanno sempre a che vedere con giornate corte e maniche lunghe, ma ieri, uff...era un caldo che avrei preferito lasciare dormire il forno ancora un po'!
Ma mi mancano i dolci.
Mi manca maneggiare le mie tortiere, usare la planetaria e tirare la frolla.
La mia dispensa straripa di farine accumulate con l'idea di farne chissà che meraviglie mentre rischio di vederle volar via con le farfalline!
Ho ceduto e mi son messa a fare biscotti.
L'idea era quella di salutare l'estate imprigionando i suoi profumi in una frolla croccante e così è stato.
Ho usato la farina Verna di cui ho tanto parlato qui, le ultime belle foglie del mio basilico che ancora resiste, ma per poco, e limone, tanto limone, perché il limone è il simbolo del sole estivo e forse, anche il suo profumo!
La farina Verna è una signora antica e un po' rustica.
Mentre la setacciavo, sono rimaste fra le maglie le minuscole particelle fibrose del grano.
Le ho prese fra le dita, erano morbide, rossicce, molto leggere.
Le ho rimesse nella farina. Un peccato mortale togliere quella caratteristica che conferisce l'inimitabile colore brunato a questa farina.
Mi sono detto che questa signora campagnola non poteva sposarsi con del burro.
Il matrimonio d'amore perfetto è con l'olio extravergine.
Così ho tirato fuori la mia bottiglia di olio Riviera Ligure dop e ho dato il via a questa ricetta, ispirata dai biscotti all'extravergine di Juls.
Ingredienti per c.ca 40 biscotti grandi
330 g di Farina Verna
200 g di farina di riso
150 g di zucchero semolato
50 gr di miele d'acacia
una decina di belle foglie di basilico, tritate grossolanamente
la scorza grattugiata di un limone non trattato
un pizzico di sale
250 g di olio extravergine Riviera Ligure Dop
50 g di succo di limone
80 g di tuorli
Setacciate le due farine con il pizzico di sale e formate una fontana con la bocca piuttosto ampia, sul piano di lavoro
Al centro mettete lo zucchero, il miele, la scorza grattugiata del limone. Sulla farina cospargete le foglie di basilico.
In un bicchiere per mixer a immersione, mettete i tuorli ed il succo di limone e cominciate a frullare, aggiungendo l'olio a filo. Vedrete montare piano piano la vostra maionese, che si rassoderà quando avrete aggiunto tutto l'olio.
Versate l'emulsione al centro della fontana raccogliendola con cura con una spatola di silicone, e con una forchetta cominciate a miscelarla con lo zucchero cercando di ottenere un composto omogeneo. Piano piano incorporate la farina fino a che riuscite ad utilizzare la forchetta, quindi finite di lavorare la vostra frolla con le mani, ottenendo una palla liscia. Avvolgetela nella pellicola e mettetela in frigo per c.ca un'ora.
Stendete la frolla in uno spessore di 5 mm e date i biscotti la forma che volete. Io li ho fatti grandi e rotondi con un coppapasta dentellato.
Fate cuocere in forno caldo a 175°C per 12/15 minuti fino a che i bordi non saranno dorati.
Fate raffreddare qualche minuto nella teglia quindi trasferite su una gratella per farli raffreddare completamente prima di sistemarli una scatola di latta.
Sono molto croccanti e durano a lungo se protetti da aria e umidità.
Non si finisce ma di imparare.
Ma voi lo sapevate che l'equinozio d'Autunno è il 22 o 23 settembre e non il 21 come ho sempre pensato?
E allora, vi chiederete?
Niente...così. In effetti ieri era una giornata perfettamente estiva per poter dare inizio all'autunno!
Io mi sono messa a biscottare con l'idea di dire arrivederci all'estate, perché i biscotti nella mia testa hanno sempre a che vedere con giornate corte e maniche lunghe, ma ieri, uff...era un caldo che avrei preferito lasciare dormire il forno ancora un po'!
Ma mi mancano i dolci.
Mi manca maneggiare le mie tortiere, usare la planetaria e tirare la frolla.
La mia dispensa straripa di farine accumulate con l'idea di farne chissà che meraviglie mentre rischio di vederle volar via con le farfalline!
Ho ceduto e mi son messa a fare biscotti.
L'idea era quella di salutare l'estate imprigionando i suoi profumi in una frolla croccante e così è stato.
Ho usato la farina Verna di cui ho tanto parlato qui, le ultime belle foglie del mio basilico che ancora resiste, ma per poco, e limone, tanto limone, perché il limone è il simbolo del sole estivo e forse, anche il suo profumo!
La farina Verna è una signora antica e un po' rustica.
Mentre la setacciavo, sono rimaste fra le maglie le minuscole particelle fibrose del grano.
Le ho prese fra le dita, erano morbide, rossicce, molto leggere.
Le ho rimesse nella farina. Un peccato mortale togliere quella caratteristica che conferisce l'inimitabile colore brunato a questa farina.
Mi sono detto che questa signora campagnola non poteva sposarsi con del burro.
Il matrimonio d'amore perfetto è con l'olio extravergine.
Così ho tirato fuori la mia bottiglia di olio Riviera Ligure dop e ho dato il via a questa ricetta, ispirata dai biscotti all'extravergine di Juls.
Ingredienti per c.ca 40 biscotti grandi
330 g di Farina Verna
200 g di farina di riso
150 g di zucchero semolato
50 gr di miele d'acacia
una decina di belle foglie di basilico, tritate grossolanamente
la scorza grattugiata di un limone non trattato
un pizzico di sale
250 g di olio extravergine Riviera Ligure Dop
50 g di succo di limone
80 g di tuorli
Setacciate le due farine con il pizzico di sale e formate una fontana con la bocca piuttosto ampia, sul piano di lavoro
Al centro mettete lo zucchero, il miele, la scorza grattugiata del limone. Sulla farina cospargete le foglie di basilico.
In un bicchiere per mixer a immersione, mettete i tuorli ed il succo di limone e cominciate a frullare, aggiungendo l'olio a filo. Vedrete montare piano piano la vostra maionese, che si rassoderà quando avrete aggiunto tutto l'olio.
Versate l'emulsione al centro della fontana raccogliendola con cura con una spatola di silicone, e con una forchetta cominciate a miscelarla con lo zucchero cercando di ottenere un composto omogeneo. Piano piano incorporate la farina fino a che riuscite ad utilizzare la forchetta, quindi finite di lavorare la vostra frolla con le mani, ottenendo una palla liscia. Avvolgetela nella pellicola e mettetela in frigo per c.ca un'ora.
Stendete la frolla in uno spessore di 5 mm e date i biscotti la forma che volete. Io li ho fatti grandi e rotondi con un coppapasta dentellato.
Fate cuocere in forno caldo a 175°C per 12/15 minuti fino a che i bordi non saranno dorati.
Fate raffreddare qualche minuto nella teglia quindi trasferite su una gratella per farli raffreddare completamente prima di sistemarli una scatola di latta.
Sono molto croccanti e durano a lungo se protetti da aria e umidità.
venerdì 20 settembre 2013
Venerdi vegetariano con Starbooks: insalata di farro, zucca e finocchi
E' stata una settimana faticosa, un mese faticoso, un periodo faticosissimo.
Non sono troppo presente sul blog e spero vorrete perdonarmi.
Di questa ottima insalata di farro non troverete la ricetta qui da me.
Vi invito quindi ad andare a leggere di là, presso l'attivissimo blog Starbooks, che sforna una bontà vegetariana dietro l'altra grazie al libro del mese " River Cottage VEG EVERYDAY".
Non perdetevelo: non si parla di dieta, di rinunce, di leggerezza forzata, ma di grandi ricette con le verdure.
E chi non ci crede, pancia lo colga!
Non sono troppo presente sul blog e spero vorrete perdonarmi.
Di questa ottima insalata di farro non troverete la ricetta qui da me.
Vi invito quindi ad andare a leggere di là, presso l'attivissimo blog Starbooks, che sforna una bontà vegetariana dietro l'altra grazie al libro del mese " River Cottage VEG EVERYDAY".
Non perdetevelo: non si parla di dieta, di rinunce, di leggerezza forzata, ma di grandi ricette con le verdure.
E chi non ci crede, pancia lo colga!
lunedì 16 settembre 2013
Le mie Raviole del Plin con brasato al Nobile di Montepulciano
Luce dei miei occhi - Ludovico Einaudi
Chi mi conosce attraverso questo blog, sa bene il mio amore per la pasta fresca e le paste regionali.
Le paste ripiene poi, sono in grado di pacificarmi con il mondo quindi è chiaro come la ricetta di Elisa per l'MTC di settembre abbia incontrato il mio entusiasmo indiscriminato. La poesia del suo post mi ha catturata definitivamente ed ho atteso il week end sapendo che avrei potuto intraprendere il mio antistress preferito: fare la pasta!
Ho assaggiato le raviole del plin una sola volta a La Morra, 18 anni fa, durante il mio primo viaggio in Piemonte, dove mi trovavo per realizzare degli itinerari lungo le strade del vino delle Langhe.
Mi ero fermata per pranzo in uno dei più antichi ristoranti della zona, Il Belvedere, ed ordinai delle raviole condite con burro e tartufo.
Quel momento lo ricordo come fosse ora. Non sapevo se lanciarmi sul piatto o appiccicare la fronte al vetro della finestra situata accanto al mio tavolo, da cui si godeva uno dei panorami più belli visti in vita mia.
Uno rischia di non riprendersi più dopo tali emozioni!
La prima parola che mi viene in mente quando penso al Piemonte è "vino".
Non me ne vogliate, ma la mia è una deformazione professionale.
Per me, che vivo in Toscana, il Piemonte è la regione del vino.
Ho scoperto la geografia di questa terra attraverso le sue aziende vinicole ed i suoi produttori.
Così che quando ho letto la ricetta di Elisa, la mia testa ha fatto un'associazione scontatissima: li faccio al brasato.
Ma di Barolo in casa mia purtroppo nemmeno l'ombra.
Come posso fare per omaggiare il Piemonte, le sue raviole ed il Re dei Vini?
Magari se utilizzassi un vino toscano dal sangue blu, blasonato anche se non reale come un Nobile, potrebbe funzionare?
La preparazione è un po' lunga in quanto la marinatura e cottura del brasato richiedono il loro tempo, ma con un po' di organizzazione, tutto viene da sé.
Ingredienti per 4 persone:
Per il brasato:
1200 g di manzo tipo "cappello del prete" o "cimalino" come è chiamato da noi. Io ho usato carne Chianina.
3 carote
2 gambi di sedano
1 cipolla bianca
un bouquet garni fatto con salvia, rosmarino, timo, alloro e prezzemolo
1 bordolese di Vino Nobile di Montepulciano Docg
2 cucchiai di spezie ispirazione Maya (miscela di bacche di cacao, acacia, pepe rosa, pepe bianco, rosmarino in polvere, pepe selvatico Voatsiperifery detto anche borbonese)
un cucchiaio di burro
olio extravergine d'oliva
Sale
Per la sfoglia
200 g di farina 00
1 uovo intero grande
2 tuorli grandi
Per il ripieno
300 g di brasato
100 g di bieta (peso da cotta)
50 gr di parmigiano grattuggiato
1 uovo
2 cucchiai abbondanti di "sugo" del brasato
sale
Per il condimento
Sugo del brasato
Cominciate la sera prima mettendo a marinare la carne ben legata con dello spago da cucina, in una larga ciotola.
Pulite e tagliate le verdure a pezzi non troppo piccoli, e sistematele sulla carne quindi aggiungete il bouquet garni e coprite completamente con il vino.
In ultimo aggiungete due belle cucchiaiata di spezie (questa miscela me l'ha regalata la meravigliosa Mapi di ritorno dal suo viaggio a Parigi, e fino ad oggi mi ronzava nella testa la domanda di come l'avrei utilizzata.
Questo è stato il momento giusto, direi perfetto - la miscela di queste spezie conferisce al piatto un carattere unico).
Coprite la ciotola con la pellicola e mettete in frigo tutta la notte.
Togliete la carne dalla marinata, asciugatela bene con carta assorbente.
In una casseruola larga ed alta, mettete un cucchiaio di burro e 3 bei cucchiai di olio extravergine.
Fate scaldare bene quindi aggiungete la carne.
Fate rosolare molto bene a fuoco vivace su tutti i lati, fino a che non otterrete una bella crosticina.
Mentre la carne rosola, scolate le verdure dal vino, tenendo il vino da parte, quindi a rosolatura avvenuta, aggiungetele nella casseruola con la carne.
Fatele cuocere 10/15 minuti, mescolandole via fino a che non si saranno ammorbidite. Salate il tutto.
A questo punto aggiungete la marinata, che avrete fatto riscaldare, abbassate la fiamma e coprite. Fate cuocere non meno di due ore, ma potrebbe essere necessario anche un po' di più, dipende dalla grandezza del vostro pezzo di carne.
Mentre il brasato cuoce, preparate la sfoglia come spiega perfettamente Elisa qui.
Pronto il vostro brasato, fatelo raffreddare quanto basta per tagliare agilmente le fette necessarie al vostro ripieno.
Con il frullatore ad immersione, frullate le verdure nel liquido di cottura del brasato ottenendo un composto cremoso e fluido. Aggiustate di sale se necessario.
Tenete gelosamente da parte.
Lessate la bieta accuratamente pulita, lavata, e privata dei gambi (che conserverete per un'altra ricetta), in abbondante acqua salata.
Scolatela e strizzatela bene quindi mettetela nel robot da cucina insieme alla carne.
Tritate bene fino ad ottenere un composto morbido e sottile.
Mettete il composto in una ciotola.
Aggiungete l'uovo, il parmigiano, il "sugo" del brasato e mescolate bene con le mani per amalgamare tutti i sapori. Assaggiate ed aggiustate di sale e pepe se preferite.
Passiamo adesso alla fase due.
Queste raviole hanno necessità di un involucro lieve e delicato per valorizzare il proprio ripieno, per cui ho preferito tirare la sfoglia con la macchina piuttosto che a mano.
La macchina ha il pregio di consentirti di tirare quantità di pasta inferiori, non correndo così il rischio di farla seccare, che sarebbe deleterio al momento del "confezionamento" delle raviole.
Ho trovato la tecnica semplice e veloce e mi sono emozionata, come sempre mi succede, quando ho la possibilità di sperimentare e soffermarmi sulle delicate ingegnerie che le mani femminili sono riuscite a creare nel tempo.
Chi avrebbe mai potuto immaginare che un certo modo di tagliare i ravioli potesse produrre delle piccole "tasche" gentili in cui raccogliere il condimento? Casualità o genio? Non si può dire.
Resta il fatto che queste raviole sono geniali.
Si comincia stendendo dei rettangoli di pasta.
Io ho tirato al sfoglia all'ultimo spessore previsto dalla mia macchina, quindi al più sottile.
Ho diviso ogni striscia in due strisce più sottili, che risultavano perfette per accogliere la quantità di ripieno prevista.
Per mio gusto personale, ho cercato di ottenere delle "ravioline", lievemente più piccole di quelle presentate da Elisa.
Mettete piccoli mucchi di composto grandi come nocciole, sulla striscia di pasta, distanti l'uno dall'altro non più un cm.
Ripiegate la pasta sul ripieno, aiutandovi a spingere la sfoglia contro il ripieno con la punta delle dita, per non imprigionare aria.
A questo punto, pizzicate con decisione la pasta che separa i piccoli ripieni, ottenendo così i famosi plin.
Con una rotella dentata, tagliate la pasta in eccesso lungo la striscia di pasta, lasciando c.ca 5 mm di spessore a decorazione delle raviole.
Adesso mettete la striscia di pasta ripiena con la "schiena" del raviolo di fronte a voi e con la rotella separate le raviole tagliando dal basso verso l'alto.
In questa maniera otterrete le caratteristiche "tasche" delle raviole del plin. Questo video bellissimo di Elisa vi spiega tutto alla perfezione.
Mettete ad asciugare su un canovaccio di lino o cotone cospargendole di un po' di farina se necessario.
Qualche piccolo consiglio che posso dare dopo aver provato questa preparazione è:
Fare poca sfoglia alla volta affinché non si secchi e si possa lavorare con facilità.
Fate che le palline di ripieno non siano troppo distanti l'una dall'altra per ottenere delle raviole aggraziate e non troppo grandi.
Si fanno velocemente quindi fatene un po' di più e congelatele perché ve ne tornerà la voglia molto presto.
Siamo quasi arrivati in fondo.
Cuocete le vostre raviole in abbondante acqua bollente e salata per pochi minuti. Le raviole hanno una sfoglia così sottile che bastano 3/4 minuti.
Mettete il "sugo" di brasato in una padella e fatelo addensare a fiamma vivace.
In una ciotola scolate accuratamente le raviole e conditele con il sugo di brasato mescolandole bene.
Impiattatele e servite subito ben caldo.
A piacere, spolverate con parmigiano.
Con questa ricetta ringrazio Elisa e l'MTC e partecipo alla sfida di Settembre
Chi mi conosce attraverso questo blog, sa bene il mio amore per la pasta fresca e le paste regionali.
Le paste ripiene poi, sono in grado di pacificarmi con il mondo quindi è chiaro come la ricetta di Elisa per l'MTC di settembre abbia incontrato il mio entusiasmo indiscriminato. La poesia del suo post mi ha catturata definitivamente ed ho atteso il week end sapendo che avrei potuto intraprendere il mio antistress preferito: fare la pasta!
Ho assaggiato le raviole del plin una sola volta a La Morra, 18 anni fa, durante il mio primo viaggio in Piemonte, dove mi trovavo per realizzare degli itinerari lungo le strade del vino delle Langhe.
Mi ero fermata per pranzo in uno dei più antichi ristoranti della zona, Il Belvedere, ed ordinai delle raviole condite con burro e tartufo.
Quel momento lo ricordo come fosse ora. Non sapevo se lanciarmi sul piatto o appiccicare la fronte al vetro della finestra situata accanto al mio tavolo, da cui si godeva uno dei panorami più belli visti in vita mia.
Uno rischia di non riprendersi più dopo tali emozioni!
La prima parola che mi viene in mente quando penso al Piemonte è "vino".
Non me ne vogliate, ma la mia è una deformazione professionale.
Per me, che vivo in Toscana, il Piemonte è la regione del vino.
Ho scoperto la geografia di questa terra attraverso le sue aziende vinicole ed i suoi produttori.
Così che quando ho letto la ricetta di Elisa, la mia testa ha fatto un'associazione scontatissima: li faccio al brasato.
Ma di Barolo in casa mia purtroppo nemmeno l'ombra.
Come posso fare per omaggiare il Piemonte, le sue raviole ed il Re dei Vini?
Magari se utilizzassi un vino toscano dal sangue blu, blasonato anche se non reale come un Nobile, potrebbe funzionare?
La preparazione è un po' lunga in quanto la marinatura e cottura del brasato richiedono il loro tempo, ma con un po' di organizzazione, tutto viene da sé.
Ingredienti per 4 persone:
Per il brasato:
1200 g di manzo tipo "cappello del prete" o "cimalino" come è chiamato da noi. Io ho usato carne Chianina.
3 carote
2 gambi di sedano
1 cipolla bianca
un bouquet garni fatto con salvia, rosmarino, timo, alloro e prezzemolo
1 bordolese di Vino Nobile di Montepulciano Docg
2 cucchiai di spezie ispirazione Maya (miscela di bacche di cacao, acacia, pepe rosa, pepe bianco, rosmarino in polvere, pepe selvatico Voatsiperifery detto anche borbonese)
un cucchiaio di burro
olio extravergine d'oliva
Sale
Per la sfoglia
200 g di farina 00
1 uovo intero grande
2 tuorli grandi
Per il ripieno
300 g di brasato
100 g di bieta (peso da cotta)
50 gr di parmigiano grattuggiato
1 uovo
2 cucchiai abbondanti di "sugo" del brasato
sale
Per il condimento
Sugo del brasato
Cominciate la sera prima mettendo a marinare la carne ben legata con dello spago da cucina, in una larga ciotola.
Pulite e tagliate le verdure a pezzi non troppo piccoli, e sistematele sulla carne quindi aggiungete il bouquet garni e coprite completamente con il vino.
In ultimo aggiungete due belle cucchiaiata di spezie (questa miscela me l'ha regalata la meravigliosa Mapi di ritorno dal suo viaggio a Parigi, e fino ad oggi mi ronzava nella testa la domanda di come l'avrei utilizzata.
Questo è stato il momento giusto, direi perfetto - la miscela di queste spezie conferisce al piatto un carattere unico).
Coprite la ciotola con la pellicola e mettete in frigo tutta la notte.
Togliete la carne dalla marinata, asciugatela bene con carta assorbente.
In una casseruola larga ed alta, mettete un cucchiaio di burro e 3 bei cucchiai di olio extravergine.
Fate scaldare bene quindi aggiungete la carne.
Fate rosolare molto bene a fuoco vivace su tutti i lati, fino a che non otterrete una bella crosticina.
Mentre la carne rosola, scolate le verdure dal vino, tenendo il vino da parte, quindi a rosolatura avvenuta, aggiungetele nella casseruola con la carne.
Fatele cuocere 10/15 minuti, mescolandole via fino a che non si saranno ammorbidite. Salate il tutto.
A questo punto aggiungete la marinata, che avrete fatto riscaldare, abbassate la fiamma e coprite. Fate cuocere non meno di due ore, ma potrebbe essere necessario anche un po' di più, dipende dalla grandezza del vostro pezzo di carne.
Mentre il brasato cuoce, preparate la sfoglia come spiega perfettamente Elisa qui.
Pronto il vostro brasato, fatelo raffreddare quanto basta per tagliare agilmente le fette necessarie al vostro ripieno.
Con il frullatore ad immersione, frullate le verdure nel liquido di cottura del brasato ottenendo un composto cremoso e fluido. Aggiustate di sale se necessario.
Tenete gelosamente da parte.
Lessate la bieta accuratamente pulita, lavata, e privata dei gambi (che conserverete per un'altra ricetta), in abbondante acqua salata.
Scolatela e strizzatela bene quindi mettetela nel robot da cucina insieme alla carne.
Tritate bene fino ad ottenere un composto morbido e sottile.
Mettete il composto in una ciotola.
Aggiungete l'uovo, il parmigiano, il "sugo" del brasato e mescolate bene con le mani per amalgamare tutti i sapori. Assaggiate ed aggiustate di sale e pepe se preferite.
Passiamo adesso alla fase due.
Queste raviole hanno necessità di un involucro lieve e delicato per valorizzare il proprio ripieno, per cui ho preferito tirare la sfoglia con la macchina piuttosto che a mano.
La macchina ha il pregio di consentirti di tirare quantità di pasta inferiori, non correndo così il rischio di farla seccare, che sarebbe deleterio al momento del "confezionamento" delle raviole.
Ho trovato la tecnica semplice e veloce e mi sono emozionata, come sempre mi succede, quando ho la possibilità di sperimentare e soffermarmi sulle delicate ingegnerie che le mani femminili sono riuscite a creare nel tempo.
Chi avrebbe mai potuto immaginare che un certo modo di tagliare i ravioli potesse produrre delle piccole "tasche" gentili in cui raccogliere il condimento? Casualità o genio? Non si può dire.
Resta il fatto che queste raviole sono geniali.
Si comincia stendendo dei rettangoli di pasta.
Io ho tirato al sfoglia all'ultimo spessore previsto dalla mia macchina, quindi al più sottile.
Ho diviso ogni striscia in due strisce più sottili, che risultavano perfette per accogliere la quantità di ripieno prevista.
Per mio gusto personale, ho cercato di ottenere delle "ravioline", lievemente più piccole di quelle presentate da Elisa.
Mettete piccoli mucchi di composto grandi come nocciole, sulla striscia di pasta, distanti l'uno dall'altro non più un cm.
Ripiegate la pasta sul ripieno, aiutandovi a spingere la sfoglia contro il ripieno con la punta delle dita, per non imprigionare aria.
A questo punto, pizzicate con decisione la pasta che separa i piccoli ripieni, ottenendo così i famosi plin.
Con una rotella dentata, tagliate la pasta in eccesso lungo la striscia di pasta, lasciando c.ca 5 mm di spessore a decorazione delle raviole.
Adesso mettete la striscia di pasta ripiena con la "schiena" del raviolo di fronte a voi e con la rotella separate le raviole tagliando dal basso verso l'alto.
In questa maniera otterrete le caratteristiche "tasche" delle raviole del plin. Questo video bellissimo di Elisa vi spiega tutto alla perfezione.
Mettete ad asciugare su un canovaccio di lino o cotone cospargendole di un po' di farina se necessario.
Qualche piccolo consiglio che posso dare dopo aver provato questa preparazione è:
Fare poca sfoglia alla volta affinché non si secchi e si possa lavorare con facilità.
Fate che le palline di ripieno non siano troppo distanti l'una dall'altra per ottenere delle raviole aggraziate e non troppo grandi.
Si fanno velocemente quindi fatene un po' di più e congelatele perché ve ne tornerà la voglia molto presto.
Siamo quasi arrivati in fondo.
Cuocete le vostre raviole in abbondante acqua bollente e salata per pochi minuti. Le raviole hanno una sfoglia così sottile che bastano 3/4 minuti.
Mettete il "sugo" di brasato in una padella e fatelo addensare a fiamma vivace.
In una ciotola scolate accuratamente le raviole e conditele con il sugo di brasato mescolandole bene.
Impiattatele e servite subito ben caldo.
A piacere, spolverate con parmigiano.
Con questa ricetta ringrazio Elisa e l'MTC e partecipo alla sfida di Settembre
giovedì 12 settembre 2013
STARBOOKS all veggie!
Da questa settimana è ripartito lo Starbooks, puntuale come sempre con una nuova pubblicazione che farà la felicità degli amanti del "green side".
Non vi perdete le nostre ricette testate appositamente.
Oggi troverete una splendida zuppa di castagne e salvia, vellutata e confortante proprio come piace a me!
Buona lettura!
Non vi perdete le nostre ricette testate appositamente.
Oggi troverete una splendida zuppa di castagne e salvia, vellutata e confortante proprio come piace a me!
Buona lettura!
mercoledì 11 settembre 2013
Risotto al sidro, con fichi e pancetta di cinta croccante: la saggezza del fico.
The sweetest thing - U2
I fichi sono un'altra delle mie macchine del tempo.
Nella tenuta dove sono cresciuta a due passi da Siena, Settembre era un mese costellato da infinite attività.
L'estate terminava con lunghe passeggiate lungo le siepi di rovo che popolavano il viale di cipressi secolari e si immettevano nel bosco.
Si raccoglievano le more.
Mia madre riempiva cestini di vimini, io e mia sorella le nostre bocche di bambine cresciute senza conoscere il significato della parola "merendina".
More grandi come chicchi d'uva, succose e spesso arse dal sole, il che non era certo una benedizione per i nostri giovani intestini.
Ogni tanto scappavamo inseguite da serpenti frustoni, disturbati dal nostro pesticciare nell'erba alta, e non era raro imbattersi in vipere addormentate al sole, il cui ricordo ha tormentato i miei sonni in più di una notte.
Finite le more, toccava all'albero di fico più grande della fattoria.
Potevamo arrampicarci anche sui rami più alti, grazie ad un muretto che si affacciava proprio a metà altezza.
Grondava di frutta e di api festanti.
Non ricordo di aver mai mangiato fichi deliziosi come quelli...ma forse era il senso di avventura a rendere tutto assolutamente irresistibile.
Ricordo che un'estate, una delle amiche più grandi che capeggiava questi raid fruttiferi, mangiò così tanti fichi da farsi venire la febbre.
Quell'albero perse per lei ogni romanticismo.
La pianta di fichi ha costellato la mia infanzia, è stata una presenza saggia, silenziosa, nei ricordi delle vacanze trascorse al lago, così come nei racconti di mio padre bambino, che come me, si arrampicava sull'albero di fioroni come un pirata sull'albero maestro.
L'albero di fichi di mio padre cresceva in un paese che adesso non esiste più, ed il suo nome fa parte del mito della mia storia familiare: Fontefredda.
Ci sono stata, molto tempo fa, e le case abbandonate erano ormai popolate dalla vegetazione: parietaria, rovi e rigogliose piante di fico, affacciate alle finestre sgarrupate, come dame malinconiche in attesa di una serenata.
Questa ricetta ha quasi un anno e non ho mai avuto l'occasione di pubblicarla fino ad oggi.
La potete trovare sul libro "Cucina Italiana 2.0", di Roberta D'Ancona, in cui è presente anche il mio piccolo contributo.
Nella tenuta dove sono cresciuta a due passi da Siena, Settembre era un mese costellato da infinite attività.
L'estate terminava con lunghe passeggiate lungo le siepi di rovo che popolavano il viale di cipressi secolari e si immettevano nel bosco.
Si raccoglievano le more.
Mia madre riempiva cestini di vimini, io e mia sorella le nostre bocche di bambine cresciute senza conoscere il significato della parola "merendina".
More grandi come chicchi d'uva, succose e spesso arse dal sole, il che non era certo una benedizione per i nostri giovani intestini.
Ogni tanto scappavamo inseguite da serpenti frustoni, disturbati dal nostro pesticciare nell'erba alta, e non era raro imbattersi in vipere addormentate al sole, il cui ricordo ha tormentato i miei sonni in più di una notte.
Finite le more, toccava all'albero di fico più grande della fattoria.
Potevamo arrampicarci anche sui rami più alti, grazie ad un muretto che si affacciava proprio a metà altezza.
Grondava di frutta e di api festanti.
Non ricordo di aver mai mangiato fichi deliziosi come quelli...ma forse era il senso di avventura a rendere tutto assolutamente irresistibile.
Ricordo che un'estate, una delle amiche più grandi che capeggiava questi raid fruttiferi, mangiò così tanti fichi da farsi venire la febbre.
Quell'albero perse per lei ogni romanticismo.
La pianta di fichi ha costellato la mia infanzia, è stata una presenza saggia, silenziosa, nei ricordi delle vacanze trascorse al lago, così come nei racconti di mio padre bambino, che come me, si arrampicava sull'albero di fioroni come un pirata sull'albero maestro.
L'albero di fichi di mio padre cresceva in un paese che adesso non esiste più, ed il suo nome fa parte del mito della mia storia familiare: Fontefredda.
Ci sono stata, molto tempo fa, e le case abbandonate erano ormai popolate dalla vegetazione: parietaria, rovi e rigogliose piante di fico, affacciate alle finestre sgarrupate, come dame malinconiche in attesa di una serenata.
Questa ricetta ha quasi un anno e non ho mai avuto l'occasione di pubblicarla fino ad oggi.
La potete trovare sul libro "Cucina Italiana 2.0", di Roberta D'Ancona, in cui è presente anche il mio piccolo contributo.
L’idea è
partita da un bicchiere di sidro e da alcuni fichi freschi appena colti. Perché
non farci un bel risotto? Il riso è molto versatile e decisamente buono con la
frutta, dalle fragole ai mirtilli e pure con il melone.
Anche qui un assaggio della mia terra, con questa pancetta di Cinta Senese, che diventa bella croccante e regala un perfetto contrasto sapido alla delicatezza dei fichi e all’acida dolcezza del sidro.
Anche qui un assaggio della mia terra, con questa pancetta di Cinta Senese, che diventa bella croccante e regala un perfetto contrasto sapido alla delicatezza dei fichi e all’acida dolcezza del sidro.
Ingredienti per 4 persone
330 gr di
riso Carnaroli
1 piccola
cipolla
4 fichi
freschi
100 gr di
pancetta di Cinta Senese tagliata sottile
50 gr di
Pecorino di Pienza grattugiato
mezzo
bicchiere di sidro
Olio Extra
vergine d’oliva
Brodo
vegetale
Tagliate
finemente la cipolla e fatela rosolare in una casseruola antiaderente, in 3
cucchiai di olio. Quando la cipolla è dorata, versate il riso e fatelo brillare
qualche istante mescolando continuamente. Alzate la fiamma quindi versate il
sidro e continuate a mescolare fino a che non sarà evaporato. Cominciate la
cottura aggiungendo il brodo vegetale con un mestolo e mescolate di tanto in
tanto.
Allo
stesso tempo, su una piastra antiaderente, fate cuocere la pancetta senza altri
grassi, fino a che non sia bella croccante. Toglietela e ponetela su carta
assorbente, tamponando l’unto in eccesso.
A metà
cottura aggiungete 1/3 della pancetta sbriciolata ed i fichi sbucciati e
ridotti a pezzettini. Continuate la cottura mescolando ed aggiungendo il brodo
quando necessario. Quando il risotto sarà all’onda, toglietelo dal fuoco ed
mantecatelo con il pecorino ed un filo di olio extra vergine. Impiattatelo e
cospargete sulla superficie la pancetta sbriciolata e croccante. Servite
subito.
Accompagnatelo
da un bel bicchiere di sidro freddo.
lunedì 9 settembre 2013
Club Sandwiches: metti una sera a cena...in casa da sola!
Home alone - Theme song
Cosa compare sulle vostre tavole quando siete sole?
In altre parole: cosa vi scofanate senza ritegno quando nessuno vi vede ed il programma della serata è il possesso totale del telecomando?
Io ho un marito che vive con la valigia in mano, ma ho anche una figlia pre-adolescente per cui difficilmente mi allontano da casa.
Coincidenza ha voluto che qualche giorno fa, grazie ad un ritiro spirituale per cresimandi destinato alla signorina ed una trasferta Siciliana dell'esimio consorte, mi sono ritrovata sola.
Una serata sola in casa? E adesso che faccio?
E' come improvvisamente ritrovarsi con una giornata di tempo libero tutta per sé e pianificare un milione di cose che non si faranno mai perché quella finisce prima ancora di cominciare.
Immediatamente ho pensato: "Evviva, non devo cucinare! Mi compro un quintale di schifezze e mi faccio del male davanti ad un bel film!"
Invece, mentre ero nel super a fare la spesa, ogni volta che mi trovavo davanti all'ennesimo banco di Junk food, mi veniva la depressione. Neanche il senso di colpa...vera e propria depressione.
Perché invece non prepararmi qualcosa che mi piace tanto?
E mi sono venuti in mente loro: i club sandwiches.
Ricchi, multistrato, international, versatili e soprattutto golosissimi.
E' uno dei piatti che ordino quando viaggio per lavoro. Se sono sola in Hotel, non scendo mai a cena, detesto mangiare da sola...Allora chiamo il servizio in camera e li ordino. E posso dire che spesso, quelli che si mangiano in Hotel superano di gran lunga quelli dei bar, dei bistrot e dei pub in giro per il mondo.
Ricordo ancora la prima volta che li ho assaggiati, ovvero che li ho scoperti: il mio primo viaggio negli States a 25 anni, in un Country Club nel North Carolina mentre viaggiavo con una delegazione dell'Ente Vini di Siena.
Li ordinai dalla carta, senza neanche sapere cosa fossero.
La parola Sandwich mi rassicurava, per il resto salto nel buio.
Mi vedo arrivare questo piatto gigantesco con una marea di tramezzini multistrato subissati da un'onda di patatine fritte caldissime.
Gaudio, tripudio e giubilo!
Da allora non ho più guardato un sandwich con sufficienza.
Qualche piccola notizia sui Club Sandwiches: il loro vero nome è Clubhouse Sandwiches, per il fatto che pare siano stati inventati alla fine dell'800, da un notabile membro del Saratoga Springs Club di New York, il quale non desiderando lasciare neanche per un istante il suo posto al tavolo da gioco, si preparò una serie di sandwiches da poter tenere sempre a portata di mano.
Il salto dal tavolo da gioco ai ristoranti fu piuttosto breve, visto che già nel 1899 questi deliziosi panini comparivano sulla carta di numerosi ristoranti.
La ricetta tradizionale vuole che siano composti da 3 fette di pane a cassetta tostato, in cui si alternano tacchino, lattuga, pomodoro, bacon e maionese.
A questa si aggiungono le varianti con roast beef e uovo sodo, ma io li ho trovati anche con pollo e mostarda.
In ogni caso, quella che propongo qui è la mia versione specialissima, che nulla ha a che vedere con la ricetta tradizionale (non me ne vogliano i puristi), ma tutto con la mia inguaribile golosità:
Club Sandwiches alla mia maniera
Tipo 1: "Supergnam alla mela"
3 fette di pane a cassetta (il mio senza crosta, mi piace di più)
1 uovo medio
4/5 foglie di basilico fresco
un cucchiaio di latte
2 fettine di prosciutto di Praga
1 fettina di provola piccante
1/2 mela Granny
Maionese
3 pomodorini
Sale
Tipo 2: "Il falso magro"
3 fette di pane a cassetta
1 zucchina chiara
50 gr di primosale
2 foglie di Lattuga Scarola
2 cucchiai di pesto al pistacchio
3 acciughe sott'olio
Sale e pepe a piacere
TIPO 1
Preparate una omelette sottile con l'uovo, il latte, il sale e le foglie di basilico tritate grossolanamente. Sbattete poco e fate cuocere su un padellino antiaderente con un filo d'olio.
Una volta pronta, tenete da parte in caldo.
Lavate bene e tagliate a metà la Granni, eliminando il torsolo ma non la buccia. Tagliate fettine molto sottili e mettete da parte.
Lavate e tagliate i pomodorini.
Mettete le fettine di prosciutto di Praga tra 2 fette di pane in cassetta cuocete nel tostapane. La terza fettina tostatela da sola.
Una volta pronto il pane, aprite le due fette con il prosciutto e ponetevi la fettina di provola piccante. Sopra la provola, con grande cura, disponete le fettine di mela e all'interno della fettina di pane della base, spalmate la maionese e chiudete. A questo punto avete un toast bello pronto.
Sulla fetta superiore del toast, spalmate un filo di maionese, posizionate i pomodorini a fettine, la frittatina da cui avrete ricavato un quadrato grande come la fetta di pane e richiudete con l'ultima fetta tostata sempre spalmata sottilmente di maionete. Premete delicatamente ma con decisione, quindi dividete il sandwich lungo la diagonale ricavando 2 triangoli. Fermateli con degli spiedini di legno.
TIPO 2
Lavate bene la zucchina e tagliatela a fette sottili sulla lunghezza con un pelapatate. Fate grigliate le fettine su una piatta e tenete da parte.
Ricavate delle fette sottili 3/4 mm dal primosale e pulite con cura la lattuga.
Tostate il pane quindi componetelo come segue: sulla prima fetta spalmate all'interno il pesto di pistacchi, posizionate le fettine di primo sale, un pizzico di sale e pepe e la lattuga, quindi spalmate all'interno della seconda fetta altro pesto e chiudete il sandwich. Proseguite con un'altro piccolo strato di pesto sulla parte esterna del pane, mettete altre fettine di primo sale, quindi le acciughe e finite con le fettine di zucchine grigliate. Chiudete il sandwich con la terza fetta spalmata all'interno di pesto di pistacchi.
Procedete come prima per il taglio, procuratevi una poltrona, un poggiapiedi ed una bella bottiglia di chinotto ghiacciato e datevi al gozzoviglio!
Cosa compare sulle vostre tavole quando siete sole?
In altre parole: cosa vi scofanate senza ritegno quando nessuno vi vede ed il programma della serata è il possesso totale del telecomando?
Io ho un marito che vive con la valigia in mano, ma ho anche una figlia pre-adolescente per cui difficilmente mi allontano da casa.
Coincidenza ha voluto che qualche giorno fa, grazie ad un ritiro spirituale per cresimandi destinato alla signorina ed una trasferta Siciliana dell'esimio consorte, mi sono ritrovata sola.
Una serata sola in casa? E adesso che faccio?
E' come improvvisamente ritrovarsi con una giornata di tempo libero tutta per sé e pianificare un milione di cose che non si faranno mai perché quella finisce prima ancora di cominciare.
Immediatamente ho pensato: "Evviva, non devo cucinare! Mi compro un quintale di schifezze e mi faccio del male davanti ad un bel film!"
Invece, mentre ero nel super a fare la spesa, ogni volta che mi trovavo davanti all'ennesimo banco di Junk food, mi veniva la depressione. Neanche il senso di colpa...vera e propria depressione.
Perché invece non prepararmi qualcosa che mi piace tanto?
E mi sono venuti in mente loro: i club sandwiches.
Ricchi, multistrato, international, versatili e soprattutto golosissimi.
E' uno dei piatti che ordino quando viaggio per lavoro. Se sono sola in Hotel, non scendo mai a cena, detesto mangiare da sola...Allora chiamo il servizio in camera e li ordino. E posso dire che spesso, quelli che si mangiano in Hotel superano di gran lunga quelli dei bar, dei bistrot e dei pub in giro per il mondo.
Ricordo ancora la prima volta che li ho assaggiati, ovvero che li ho scoperti: il mio primo viaggio negli States a 25 anni, in un Country Club nel North Carolina mentre viaggiavo con una delegazione dell'Ente Vini di Siena.
Li ordinai dalla carta, senza neanche sapere cosa fossero.
La parola Sandwich mi rassicurava, per il resto salto nel buio.
Mi vedo arrivare questo piatto gigantesco con una marea di tramezzini multistrato subissati da un'onda di patatine fritte caldissime.
Gaudio, tripudio e giubilo!
Da allora non ho più guardato un sandwich con sufficienza.
Qualche piccola notizia sui Club Sandwiches: il loro vero nome è Clubhouse Sandwiches, per il fatto che pare siano stati inventati alla fine dell'800, da un notabile membro del Saratoga Springs Club di New York, il quale non desiderando lasciare neanche per un istante il suo posto al tavolo da gioco, si preparò una serie di sandwiches da poter tenere sempre a portata di mano.
Il salto dal tavolo da gioco ai ristoranti fu piuttosto breve, visto che già nel 1899 questi deliziosi panini comparivano sulla carta di numerosi ristoranti.
La ricetta tradizionale vuole che siano composti da 3 fette di pane a cassetta tostato, in cui si alternano tacchino, lattuga, pomodoro, bacon e maionese.
A questa si aggiungono le varianti con roast beef e uovo sodo, ma io li ho trovati anche con pollo e mostarda.
In ogni caso, quella che propongo qui è la mia versione specialissima, che nulla ha a che vedere con la ricetta tradizionale (non me ne vogliano i puristi), ma tutto con la mia inguaribile golosità:
Club Sandwiches alla mia maniera
Tipo 1: "Supergnam alla mela"
3 fette di pane a cassetta (il mio senza crosta, mi piace di più)
1 uovo medio
4/5 foglie di basilico fresco
un cucchiaio di latte
2 fettine di prosciutto di Praga
1 fettina di provola piccante
1/2 mela Granny
Maionese
3 pomodorini
Sale
Tipo 2: "Il falso magro"
3 fette di pane a cassetta
1 zucchina chiara
50 gr di primosale
2 foglie di Lattuga Scarola
2 cucchiai di pesto al pistacchio
3 acciughe sott'olio
Sale e pepe a piacere
TIPO 1
Preparate una omelette sottile con l'uovo, il latte, il sale e le foglie di basilico tritate grossolanamente. Sbattete poco e fate cuocere su un padellino antiaderente con un filo d'olio.
Una volta pronta, tenete da parte in caldo.
Lavate bene e tagliate a metà la Granni, eliminando il torsolo ma non la buccia. Tagliate fettine molto sottili e mettete da parte.
Lavate e tagliate i pomodorini.
Mettete le fettine di prosciutto di Praga tra 2 fette di pane in cassetta cuocete nel tostapane. La terza fettina tostatela da sola.
Una volta pronto il pane, aprite le due fette con il prosciutto e ponetevi la fettina di provola piccante. Sopra la provola, con grande cura, disponete le fettine di mela e all'interno della fettina di pane della base, spalmate la maionese e chiudete. A questo punto avete un toast bello pronto.
Sulla fetta superiore del toast, spalmate un filo di maionese, posizionate i pomodorini a fettine, la frittatina da cui avrete ricavato un quadrato grande come la fetta di pane e richiudete con l'ultima fetta tostata sempre spalmata sottilmente di maionete. Premete delicatamente ma con decisione, quindi dividete il sandwich lungo la diagonale ricavando 2 triangoli. Fermateli con degli spiedini di legno.
TIPO 2
Lavate bene la zucchina e tagliatela a fette sottili sulla lunghezza con un pelapatate. Fate grigliate le fettine su una piatta e tenete da parte.
Ricavate delle fette sottili 3/4 mm dal primosale e pulite con cura la lattuga.
Tostate il pane quindi componetelo come segue: sulla prima fetta spalmate all'interno il pesto di pistacchi, posizionate le fettine di primo sale, un pizzico di sale e pepe e la lattuga, quindi spalmate all'interno della seconda fetta altro pesto e chiudete il sandwich. Proseguite con un'altro piccolo strato di pesto sulla parte esterna del pane, mettete altre fettine di primo sale, quindi le acciughe e finite con le fettine di zucchine grigliate. Chiudete il sandwich con la terza fetta spalmata all'interno di pesto di pistacchi.
Procedete come prima per il taglio, procuratevi una poltrona, un poggiapiedi ed una bella bottiglia di chinotto ghiacciato e datevi al gozzoviglio!
mercoledì 4 settembre 2013
Settembre, il mese dell'amore: Torta di nocciole con mele e albicocche
September morn - N. Diamond
Settembre mi fa battere il cuore.
E' il mio mese dell'amore.
Quello in cui ho dato il primo bacio, in cui mi sono fidanzata, e dopo molti anni, anche sposata. Tutto questo con la stessa persona.
Non so perchè, ma forse è proprio per questo che Settembre mi piace tanto.
Settembre è un mese maledettamente romantico: i cieli spazzati dal vento, sono bassi, vicini, di un azzurro che ti avvolge.
Il sole scalda ma è gentile e dolce e le serate cominciano ad essere fresche, le ombre si allungano, ed è ancora estate.
E' un mese perfetto per partire, per indugiare al mare su spiagge che si svuotano, per lunghe passeggiate in campagna dove respirare il profumo degli alberi di fichi ormai carichi e delle siepi corollate di more.
Il settembre in Toscana è di una bellezza che ti ruba il cuore.
Il mio matrimonio è stato una festa in campagna, una minuscola chiesa che non conteneva neanche tutti gli invitati, un buffet in giardino sotto gazebo bianchi e balle di fieno su cui sedersi, ed un vento dispettoso che ha mandato tutti a letto prima del tempo.
Però ogni volta che ricordo, mi emoziono.
E penso che sia stata la più bella festa a cui ho partecipato.
Ormai ci ho preso gusto.
Basta un po' di coraggio ed il forno riprende i suoi ritmi.
Questa è una torta perfetta per Settembre. Le ultime albicocche (uno dei miei frutti estivi preferiti), una mela croccante e nocciole profumatissime ed avrete un dolce facilissimo, da rifare e rifare con vostre variazioni sul tema. Provatelo e mi direte.
Ingredienti per uno stampo da 22 cm di diametro
1 piccola mela Gala
60 gr di nocciole tonda gentile delle Langhe
2 uova medie
80 gr di burro
160 gr di zucchero a velo
un cucchiaio di zucchero demerara
160 gr di farina
4 albicocche
mezza bustina di lievito in polvere
Lasciate il burro a temperatura ambiente quindi montatelo con lo zucchero a velo setacciato, fino a che non otterrete un composto leggero e spumoso.
Aggiungete le uova, una alla volta e non inserite la seconda se la prima non sarà stata ben incorporata.
Una volta ben incorporate entrambe le uova, aggiungete gli ingredienti secchi miscelati, ovvero la farina con le nocciole tritate finemente nel mixer con il cucchiaio di demerara, ed il lievito setacciato.
Aggiungete un cucchiaio di composto alla volta continuando a mescolare.
Quando il tutto è ben amalgamato, versatelo in una tortiera foderata con carta da forno inumidita e ben strizzata.
Sbucciate la mela, privatela del torsolo e tagliatela a meta. Riducetela a fettine sottili.
Lavate le albicocche e tagliatele a meta privandole del nocciolo.
Sistemate le albicocche a raggiera sulla superficie del dolce, alternandole con le fettine di mele leggermente affondate nell'impasto.
Spargete una manciata di zucchero demerara sulle mele e albicocche e se volete, una manciata di nocciole tritate grossolanamente.
Fate cuocere in forno caldo a 175° per 50/60 minuti e fate la prova stecchino prima di toglierla.
Lasciate raffreddare, sfornatela e spolveratela con lo zucchero a velo.
E' buonissima!
Settembre mi fa battere il cuore.
E' il mio mese dell'amore.
Quello in cui ho dato il primo bacio, in cui mi sono fidanzata, e dopo molti anni, anche sposata. Tutto questo con la stessa persona.
Non so perchè, ma forse è proprio per questo che Settembre mi piace tanto.
Settembre è un mese maledettamente romantico: i cieli spazzati dal vento, sono bassi, vicini, di un azzurro che ti avvolge.
Il sole scalda ma è gentile e dolce e le serate cominciano ad essere fresche, le ombre si allungano, ed è ancora estate.
E' un mese perfetto per partire, per indugiare al mare su spiagge che si svuotano, per lunghe passeggiate in campagna dove respirare il profumo degli alberi di fichi ormai carichi e delle siepi corollate di more.
Il settembre in Toscana è di una bellezza che ti ruba il cuore.
Il mio matrimonio è stato una festa in campagna, una minuscola chiesa che non conteneva neanche tutti gli invitati, un buffet in giardino sotto gazebo bianchi e balle di fieno su cui sedersi, ed un vento dispettoso che ha mandato tutti a letto prima del tempo.
Però ogni volta che ricordo, mi emoziono.
E penso che sia stata la più bella festa a cui ho partecipato.
Ormai ci ho preso gusto.
Basta un po' di coraggio ed il forno riprende i suoi ritmi.
Questa è una torta perfetta per Settembre. Le ultime albicocche (uno dei miei frutti estivi preferiti), una mela croccante e nocciole profumatissime ed avrete un dolce facilissimo, da rifare e rifare con vostre variazioni sul tema. Provatelo e mi direte.
Ingredienti per uno stampo da 22 cm di diametro
1 piccola mela Gala
60 gr di nocciole tonda gentile delle Langhe
2 uova medie
80 gr di burro
160 gr di zucchero a velo
un cucchiaio di zucchero demerara
160 gr di farina
4 albicocche
mezza bustina di lievito in polvere
Lasciate il burro a temperatura ambiente quindi montatelo con lo zucchero a velo setacciato, fino a che non otterrete un composto leggero e spumoso.
Aggiungete le uova, una alla volta e non inserite la seconda se la prima non sarà stata ben incorporata.
Una volta ben incorporate entrambe le uova, aggiungete gli ingredienti secchi miscelati, ovvero la farina con le nocciole tritate finemente nel mixer con il cucchiaio di demerara, ed il lievito setacciato.
Aggiungete un cucchiaio di composto alla volta continuando a mescolare.
Quando il tutto è ben amalgamato, versatelo in una tortiera foderata con carta da forno inumidita e ben strizzata.
Sbucciate la mela, privatela del torsolo e tagliatela a meta. Riducetela a fettine sottili.
Lavate le albicocche e tagliatele a meta privandole del nocciolo.
Sistemate le albicocche a raggiera sulla superficie del dolce, alternandole con le fettine di mele leggermente affondate nell'impasto.
Spargete una manciata di zucchero demerara sulle mele e albicocche e se volete, una manciata di nocciole tritate grossolanamente.
Fate cuocere in forno caldo a 175° per 50/60 minuti e fate la prova stecchino prima di toglierla.
Lasciate raffreddare, sfornatela e spolveratela con lo zucchero a velo.
E' buonissima!
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lunedì 2 settembre 2013
Nuove specie mutanti: il viaggiatore low cost. Melanzane variegate alla mia maniera.
Soul food to go - Manhattan transfer
Mi fa un certo sento tornare a scrivere dopo quasi un mese di silenzio.
Scusate se sono brutalmente onesta, ma avrei potuto restarmene un altro mesetto in silenzio, nell'attesa che la voglia di giocare alla piccola blogger operosa facesse capolino da queste parti.
Confesso che questa estate non sia stata il massimo per la sottoscritta.
Cominciata tardi a causa di un tempo meteorologico ignorante e capriccioso, ha visto piombarmi addosso un luglio faticoso ed un agosto corto e senza tregue tutto relax.
Sono rientrata al lavoro più stanca di prima, stranita e guardando la mia cucina come si guarda un cucchiaio d'olio di ricino.
Sintomi preoccupanti.
In sintesi, i miei 10 giorni di vacanza sono stati così ripartiti: 4 giorni in Molise per recuperare l'asparagina che si trovata dai nonni ormai da un mese e mezzo. I restanti 6 in quello che è il luogo in cui mio marito ed io dobbiamo ormai recarci almeno una volta all'anno per curare nostalgia e dipendenza: Parigi.
Trascurando il racconto di viaggio con cui, se avrò voglia, vi annoierò prossimamente, rientrata neanche 24 ore da Parigi, sono dovuta ripartire per Londra con un gruppo di 40 senescenti agguerritissimi, e dove sono restata 4 giorni belli ma massacranti.
Il beneficio della vacanza si è dunque dissolto come neve al sole sotto il Tower Bridge.
I miei frequenti andirivieni da diversi aeroporti, mi hanno consentito di osservare con via via maggiore attenzione, una nuova specie sociale dalle svariate caratteristiche e di cui, con orrore, noto sintomi evidenti anche nella sottoscritta: il viaggiatore low cost.
Oggettivamente, viste le ristrettezze in cui ci arrabattiamo negli ultimi tempi, siamo tutti viaggiatori low cost deep inside.
La ricerca del risparmio è una procedura ormai consolidata in tutte le categorie commerciali, ma riuscirci in ambito "viaggi e turismo" è motivo di vanto e orgoglio.
Il 90% per cento dei clienti che viene in agenzia a richiederci un preventivo di volo, mette sù la solita sceneggiata ormai conosciuta a memoria: "eh, però un mio amico è partito con lo stesso volo spendendo moooolto meno".
Peccato che il simpatico cliente voglia partire fra 3 giorni senza neanche passare dal via! E senza immaginare che il suo caro amico avrà fatto lo sborone di fronte a lui, vantandosi di aver speso almeno la metà del prezzo pagato veramente!
Ma lasciamo stare il punto di partenza, ovvero l'acquisto del volo.
Vi posso giurare che, per esperienza professionale, si possono acquistare biglietti da compagnie low cost spendendo molto molto poco, ma ci sono tempi e modalità che non starò a spiegarvi qui, ora.
Le compagnie low cost hanno contributo alla creazione di un viaggiatore con caratteristiche inquietanti.
Nessuno più acquista biglietti con bagaglio in stiva.
Per vivere il brivido del risparmio estremo, ormai si parte tutti con bagaglio a mano e franchigie peso sempre minori.
Ho assistito a scene penose in cui hostess di terra costringevano in malo modo passeggere "dimentiche" della borsa tracolla, ad infilarla dentro trolley inverosimilmente stipati e vedere le clienti sedersi sulla valigia per richiuderle.
Chi viaggia con solo bagaglio a mano è riconoscibile da lontano perché quello che non riesce ad infilare in valigia, lo indossa. Gente che sfoga il vaiolo a ferragosto vestita con doppie giacche, felpe e scarponcini da pioggia, cappellini.
Chi parte in low cost, non si siede mai in sala d'aspetto, ma si mette in fila come un povero pellegrino restando le mezz'ore in piedi in attesa che apra il gate e possa precipitarsi a prendere posto in aereo.
Lì per lì trovavo la cosa imbarazzante.
Mi sono chiesta "che senso ha fare la fila quando manca ancora un'ora al volo, se poi devi prendere comunque il bus per arrivare all'aeromobile e una volta arrivati, la fila è come se non l'avessi mai fatta?" Infatti, una volta discesi dalla navetta, vedi individui scapicollarsi verso le scalette.
Di recente ho capito: non è una questione di posto a sedere, ma di spazio bagaglio.
Si, perché siccome ormai tutti viaggiano solo con bagaglio a mano, le cappelliere non bastano ad accogliere tutti i borsoni e qualcuno resta con il cerino in mano, ovvero con il trolley sotto il sedile, che a dirla tutta, non è un bel viaggiare. Visto che lo spazio sedili di una low cost è inferiore a quello di una Cinquecento.
Il viaggiatore low cost è un entusiasta.
Basta il suono di una tromba che dichiara la puntualità di arrivo a destinazione, che scatta l'applauso feroce.
Se solo conoscesse la verità: ovvero che quel pilota suda 7 camicie per arrivare a destinazione nei tempi previsti, perché il carburante a sua disposizione è quello sufficiente ad arrivare lì, ove programmato, non un km in più (e credetemi non è un mito metropolitano).
Viaggiare low cost provoca una mutazione: si dimenticano le buone maniere, l'educazione di base utilizzata ai minimi termini, il rapporto con il prossimo ridotto al risparmio come i servizi a bordo, tutti a pagamento.
Non proseguo parlando delle peripezie alla ricerca dell'Hotel più economico di cui magari parlerò in una delle prossime puntante, ma ritorno nella mia cucina, per ritrovare l'appetito ed il gusto delle cose semplici che più di tutto mi piacciono.
Avendo messo le mani su delle splendide melanzane variegate, ho deciso che le avrei preparate farcite al forno, ma con un ripieno semplice e basico, che mantenesse in tutto e per tutto il sapore di questa estate che sta finendo.
La melanzana è un ortaggio che ho scoperto solo da pochi anni.
In casa mia, con una mamma "nordica", l'ho quasi esclusivamente mangiata al funghetto (che non mi fa impazzire) o nel sugo della pasta.
E' solo dopo l'incontro con mio marito, che questi frutti globosi, leggermente piccanti ed amari, hanno cominciato ad avere il loro perché.
In casa di una famiglia pugliese/molisana, l'estate è segnata dalla presenza imponente e religiosa della melanzana.
Ingredienti per 3 persone:
- 3 belle melanzane variegate, non troppo grandi e belle toste (le variegate sono più dolci delle melanzane tradizionali e molto delicate al gusto).
- 12 pomodorini datterini
- 50 gr di mollica di pane casereccio rafferma
- mezzo bicchiere di latte
- una mozzarella fior di latte tagliata a fette sottili
- 50 gr di parmigiano grattuggiato
- un ciuffo di basilico
- un ciuffo di prezzemolo
- 1 spicchio d'aglio
- olio extra vergine d'oliva (io ho usato Terre d'Otranto Dop)
- Sale - pepe
Lavate bene le melanzane ma non privatele del loro picciolo.
Tagliatele perfettamente a meta sulla lunghezza ed eliminatene la polpa con uno scavino. Fate questa operazione con molta cura, in modo da non bucare la pelle e riuscendo ad ottenere delle "barchette" con un bassissimo spessore.
Via via che fate questa operazione, mettete sia polpa che guscio in una ciotola con acqua acidulata, in maniera da non farle ossidare.
Prendete la polpa, strizzatela ed asciugatela, quindi riducetela a dadini.
In una larga padella, versate 4 cucchiai d'olio d'oliva e schiacciatevi uno spicchio d'olio. Fate insaporire l'olio senza bruciare l'aglio, quindi versatevi la polpa e fate cuocere a fiamma sostenuta per qualche istante, quindi salate e proseguite la cottura a fuoco medio per 7/8 minuti.
Nel frattempo lavate i pomodorini e tagliateli a dadini.
Versateli nel composto di melanzane e continuate la cottura per altri 3/4 minuti.
Aggiungete a fine cottura il basilico ed il prezzemolo, una bella manciata di pepe ed aggiustate di sale.
Lasciate raffreddare.
Intanto tagliate la mollica a dadini e lasciatela ammorbidire nel latte per una decina di minuti. Strizzatela bene.
In una ciotola versate il composto di pomodorini e melanzana, la mollica strizzata, il parmigiano e mescolate con le mani per amalgamare bene l'impasto.
Togliete le barchette dall'acqua, asciugatele bene. Cominciatele a farcire riempiendole a metà con l'impasto.
Coprite l'impasto con un paio di fettine sottile di fiordilatte e ricoprite con un'altro stato di impasto.
Proseguite così con tutte le barchette.
Al termine irrorate bene con olio extravergine, spolverate generosamente di parmigiano e coprite la teglia con un foglio di alluminio.
Mettete in forno preriscaldato a 180° e fate cuocere per 50 minuti.
Togliete il foglio ed alzate la temperatura a 220° continuando la cottura per altri 10 minuti, fino a che la superficie sia bella dorata.
Servite bel caldo.
Scusate se sono brutalmente onesta, ma avrei potuto restarmene un altro mesetto in silenzio, nell'attesa che la voglia di giocare alla piccola blogger operosa facesse capolino da queste parti.
Confesso che questa estate non sia stata il massimo per la sottoscritta.
Cominciata tardi a causa di un tempo meteorologico ignorante e capriccioso, ha visto piombarmi addosso un luglio faticoso ed un agosto corto e senza tregue tutto relax.
Sono rientrata al lavoro più stanca di prima, stranita e guardando la mia cucina come si guarda un cucchiaio d'olio di ricino.
Sintomi preoccupanti.
In sintesi, i miei 10 giorni di vacanza sono stati così ripartiti: 4 giorni in Molise per recuperare l'asparagina che si trovata dai nonni ormai da un mese e mezzo. I restanti 6 in quello che è il luogo in cui mio marito ed io dobbiamo ormai recarci almeno una volta all'anno per curare nostalgia e dipendenza: Parigi.
Trascurando il racconto di viaggio con cui, se avrò voglia, vi annoierò prossimamente, rientrata neanche 24 ore da Parigi, sono dovuta ripartire per Londra con un gruppo di 40 senescenti agguerritissimi, e dove sono restata 4 giorni belli ma massacranti.
Il beneficio della vacanza si è dunque dissolto come neve al sole sotto il Tower Bridge.
I miei frequenti andirivieni da diversi aeroporti, mi hanno consentito di osservare con via via maggiore attenzione, una nuova specie sociale dalle svariate caratteristiche e di cui, con orrore, noto sintomi evidenti anche nella sottoscritta: il viaggiatore low cost.
Oggettivamente, viste le ristrettezze in cui ci arrabattiamo negli ultimi tempi, siamo tutti viaggiatori low cost deep inside.
La ricerca del risparmio è una procedura ormai consolidata in tutte le categorie commerciali, ma riuscirci in ambito "viaggi e turismo" è motivo di vanto e orgoglio.
Il 90% per cento dei clienti che viene in agenzia a richiederci un preventivo di volo, mette sù la solita sceneggiata ormai conosciuta a memoria: "eh, però un mio amico è partito con lo stesso volo spendendo moooolto meno".
Peccato che il simpatico cliente voglia partire fra 3 giorni senza neanche passare dal via! E senza immaginare che il suo caro amico avrà fatto lo sborone di fronte a lui, vantandosi di aver speso almeno la metà del prezzo pagato veramente!
Ma lasciamo stare il punto di partenza, ovvero l'acquisto del volo.
Vi posso giurare che, per esperienza professionale, si possono acquistare biglietti da compagnie low cost spendendo molto molto poco, ma ci sono tempi e modalità che non starò a spiegarvi qui, ora.
Le compagnie low cost hanno contributo alla creazione di un viaggiatore con caratteristiche inquietanti.
Nessuno più acquista biglietti con bagaglio in stiva.
Per vivere il brivido del risparmio estremo, ormai si parte tutti con bagaglio a mano e franchigie peso sempre minori.
Ho assistito a scene penose in cui hostess di terra costringevano in malo modo passeggere "dimentiche" della borsa tracolla, ad infilarla dentro trolley inverosimilmente stipati e vedere le clienti sedersi sulla valigia per richiuderle.
Chi viaggia con solo bagaglio a mano è riconoscibile da lontano perché quello che non riesce ad infilare in valigia, lo indossa. Gente che sfoga il vaiolo a ferragosto vestita con doppie giacche, felpe e scarponcini da pioggia, cappellini.
Chi parte in low cost, non si siede mai in sala d'aspetto, ma si mette in fila come un povero pellegrino restando le mezz'ore in piedi in attesa che apra il gate e possa precipitarsi a prendere posto in aereo.
Lì per lì trovavo la cosa imbarazzante.
Mi sono chiesta "che senso ha fare la fila quando manca ancora un'ora al volo, se poi devi prendere comunque il bus per arrivare all'aeromobile e una volta arrivati, la fila è come se non l'avessi mai fatta?" Infatti, una volta discesi dalla navetta, vedi individui scapicollarsi verso le scalette.
Di recente ho capito: non è una questione di posto a sedere, ma di spazio bagaglio.
Si, perché siccome ormai tutti viaggiano solo con bagaglio a mano, le cappelliere non bastano ad accogliere tutti i borsoni e qualcuno resta con il cerino in mano, ovvero con il trolley sotto il sedile, che a dirla tutta, non è un bel viaggiare. Visto che lo spazio sedili di una low cost è inferiore a quello di una Cinquecento.
Il viaggiatore low cost è un entusiasta.
Basta il suono di una tromba che dichiara la puntualità di arrivo a destinazione, che scatta l'applauso feroce.
Se solo conoscesse la verità: ovvero che quel pilota suda 7 camicie per arrivare a destinazione nei tempi previsti, perché il carburante a sua disposizione è quello sufficiente ad arrivare lì, ove programmato, non un km in più (e credetemi non è un mito metropolitano).
Viaggiare low cost provoca una mutazione: si dimenticano le buone maniere, l'educazione di base utilizzata ai minimi termini, il rapporto con il prossimo ridotto al risparmio come i servizi a bordo, tutti a pagamento.
Non proseguo parlando delle peripezie alla ricerca dell'Hotel più economico di cui magari parlerò in una delle prossime puntante, ma ritorno nella mia cucina, per ritrovare l'appetito ed il gusto delle cose semplici che più di tutto mi piacciono.
Avendo messo le mani su delle splendide melanzane variegate, ho deciso che le avrei preparate farcite al forno, ma con un ripieno semplice e basico, che mantenesse in tutto e per tutto il sapore di questa estate che sta finendo.
La melanzana è un ortaggio che ho scoperto solo da pochi anni.
In casa mia, con una mamma "nordica", l'ho quasi esclusivamente mangiata al funghetto (che non mi fa impazzire) o nel sugo della pasta.
E' solo dopo l'incontro con mio marito, che questi frutti globosi, leggermente piccanti ed amari, hanno cominciato ad avere il loro perché.
In casa di una famiglia pugliese/molisana, l'estate è segnata dalla presenza imponente e religiosa della melanzana.
Ingredienti per 3 persone:
- 3 belle melanzane variegate, non troppo grandi e belle toste (le variegate sono più dolci delle melanzane tradizionali e molto delicate al gusto).
- 12 pomodorini datterini
- 50 gr di mollica di pane casereccio rafferma
- mezzo bicchiere di latte
- una mozzarella fior di latte tagliata a fette sottili
- 50 gr di parmigiano grattuggiato
- un ciuffo di basilico
- un ciuffo di prezzemolo
- 1 spicchio d'aglio
- olio extra vergine d'oliva (io ho usato Terre d'Otranto Dop)
- Sale - pepe
Lavate bene le melanzane ma non privatele del loro picciolo.
Tagliatele perfettamente a meta sulla lunghezza ed eliminatene la polpa con uno scavino. Fate questa operazione con molta cura, in modo da non bucare la pelle e riuscendo ad ottenere delle "barchette" con un bassissimo spessore.
Via via che fate questa operazione, mettete sia polpa che guscio in una ciotola con acqua acidulata, in maniera da non farle ossidare.
Prendete la polpa, strizzatela ed asciugatela, quindi riducetela a dadini.
In una larga padella, versate 4 cucchiai d'olio d'oliva e schiacciatevi uno spicchio d'olio. Fate insaporire l'olio senza bruciare l'aglio, quindi versatevi la polpa e fate cuocere a fiamma sostenuta per qualche istante, quindi salate e proseguite la cottura a fuoco medio per 7/8 minuti.
Nel frattempo lavate i pomodorini e tagliateli a dadini.
Versateli nel composto di melanzane e continuate la cottura per altri 3/4 minuti.
Aggiungete a fine cottura il basilico ed il prezzemolo, una bella manciata di pepe ed aggiustate di sale.
Lasciate raffreddare.
Intanto tagliate la mollica a dadini e lasciatela ammorbidire nel latte per una decina di minuti. Strizzatela bene.
In una ciotola versate il composto di pomodorini e melanzana, la mollica strizzata, il parmigiano e mescolate con le mani per amalgamare bene l'impasto.
Togliete le barchette dall'acqua, asciugatele bene. Cominciatele a farcire riempiendole a metà con l'impasto.
Coprite l'impasto con un paio di fettine sottile di fiordilatte e ricoprite con un'altro stato di impasto.
Proseguite così con tutte le barchette.
Al termine irrorate bene con olio extravergine, spolverate generosamente di parmigiano e coprite la teglia con un foglio di alluminio.
Mettete in forno preriscaldato a 180° e fate cuocere per 50 minuti.
Togliete il foglio ed alzate la temperatura a 220° continuando la cottura per altri 10 minuti, fino a che la superficie sia bella dorata.
Servite bel caldo.
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