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venerdì 7 novembre 2014

Salone del Gusto 2014: la differenza la fanno le persone.

People - B. Straisand
Il Salone è passato in un lampo.
Lo abbiamo aspettato due anni e come tutte le cose belle che si attendono con palpitazione, è durato il tempo di un attimo.
Nella concitazione del momento, fra i chilometri macinati nel ventre di padiglioni senza fine, riesco a mettere insieme dei pensieri soltanto ad acque ferme.
L'emozione sedimenta e resta a galla una sorta di consapevolezza di una banalità disarmante.
Quella stessa che ci accompagna in ogni ambito della nostra vita e che governa le meraviglie della scienza, della tecnologia, di ogni progresso e di ogni scoperta.
Di ogni bontà che troviamo sulle nostre tavole, o tra le foglie di un albero da frutto, nei chicchi di una  spiga di grano e tra i granelli di sale.
La differenza la fanno le persone.
La differenza la fanno le persone.
Hai voglia a parlare di qualità, di eccellenza, della meraviglia di un territorio, della ricchezze di certe aree geografiche e della bontà di certe produzioni.
Hai voglia a parlare di rivoluzioni alimentari, di salvaguardia di prodotti speciali, antichi, rari, sconosciuti, recuperati.
Hai voglia di parlare di cibo sano, di consumo sostenibile, di fame e abbondanza.
La differenza la fanno le persone.
Per ogni meraviglioso filo di extravergine che verserai sul tuo piatto, per quella farina così speciale, profumata e perfetta, per ogni scaglia di quel formaggio che ti porta in bocca il sapore del fieno e delle valli, per ogni frutto della terra, così saporito e sorprendete per il quale ti chiederai "perché non posso trovarlo così anche a casa mia", sappi che la differenza l'ha fatta lui, l'uomo che ha lottato per averlo.
A nulla serve la perfezione della natura senza l'intervento intelligente e rispettoso dell'uomo, senza il suo lavoro incessante, senza la sua ricerca ed il suo sforzo, senza la sua saggezza e lungimiranza.
A nulla servono macchine, strumenti, tecnologia senza una testa dominata da un sogno e da un bisogno.
Per questo il mio sguardo al Salone di quest'anno si è fermato molto più sulle persone che sui prodotti.
Perché questi ultimi sono figli dei primi e non serve a nulla sapere che esistono mille specie diverse di mele se non c'è nessuno che si preoccupa di coltivarle con cura, preservarle al meglio ed portarle sul banchetto di un mercato.
Dentro al Salone mi è sembrato fosse presente una gigantesca concentrazione di questa saggezza e lungimiranza.
Una volontà che non si arrende ad un mondo che corre verso tutt'altra direzione e che in tutta risposta serra i denti nello sforzo e le mani intorno ad un badile.
Dopo aver raccontato i 10 prodotti che avrei voluto trovare al Salone, sintetizzo qui la mia esperienza a Torino per la quale non smetterò di essere grata a Garofalo e Unforketable, il bellissimo progetto costruito intorno alla scuola di Niko Romito (grazie Emidio a te e a tutta la tua meravigliosa banda di entusiasti).
Ho potuto osservare i giovani chef lavorare senza la minima emozione di fronte ad una platea di astanti curiosi e concentrati e mi sono divertita a raccontare un ingrediente nobile come l'acciuga (di cui poi magari vi parlerò in un post a parte).
Adesso ci provo con i dieci sorprendenti incontri al mio ultimo Salone. In ordine rigorosamente causale.
1. L'AGLIO ROSSO DI NUBIA
Non ridete.
Quando ho sentito il nome Nubia, per deformazione professionale ho pensato all'Egitto.
Mai mi sarei aspettata di fare un errore così grossolano. Questo aglio è italianissimo, anzi, per meglio dire, sicilianissimo, per la precisione della zona di Trapani.
Alla vista è di una bellezza intrigante. Io, che detesto cordialmente l'aglio ma che ovviamente non mi esimo nell'usarlo (in maniera parca) quando cucino, ho avuto il desiderio di toccarlo ed annusarne l'intenso profumo.
La testa è rotonda, compatta, quasi perfettamente sferica e non bitorzoluta come l'aglio che siamo abituati a trovare nella grande distribuzione. Tosto, bello con quella sfumatura violetta che emerge dalle tuniche interne nascoste da un velo candido. Viene raccolto a giugno, intrecciato con arte in trecce grandissime (con oltre 100 teste l'una), e così venduto. Dura molti mesi in perfetto stato.
Il suo sapore è intenso, decisamente superiore alla media ed è impiegato con generosità in alcune tra le più rinomate ricette di quest'area, tra cui il pesto alla trapanese e nel celebre cuscus di pescato.
2. IL CACIOCAVALLO DI CIMINA'
Formaggi. Tanti, troppi.
Vi dico che in tre giorni di Salone ho assaggiato più formaggi che qualsiasi altro tipo di alimento.
Perché io amo qualsiasi cosa esca da un caseificio, il mio frigorifero è una riserva inesauribile di cacini ed in questa speciale classifica, vi renderete conto che la mia è una passione malata.
Parliamo di Calabria e di un formaggio a pasta filata che abitualmente si consuma molto giovane, a pochi giorni dalla produzione.
La tradizione locale lo vuole tagliato a fette e cotto sulla griglia, ma attraverso Slow Food (questo caciocavallo è protetto dal presidio) i produttori hanno cominciato a mettere in commercio forme più grandi destinate a stagionature prolungate. Il latte utilizzato per la produzione di questo capolavoro, che gustato fresco ricorda l'erba appena tagliata mente stagionato vira verso la nocciola, è quello di vacche podoliche che vivono allo stato brado e si alimentano di ciò che trovano nel pascolo.
Ho la fortuna di avere assaggiato molti tipi di caciocavallo ad oggi, e quello di Ciminà è sicuramente in cima alle mie preferenze.
3. I CAPRINI DI WHITE LAKE 
Questo formaggio mi ha costato momenti di puro panico durante il mio viaggio di ritorno da Torino in business sul Frecciarossa. A neanche mezz'ora dalla partenza il mio naso sensibilissimo ha cominciato a percepirne l'insofferenza puzzolente nonostante fosse adeguatamente sigillato, sistemato all'interno di una doppia busta e custodito in un grande bagaglio a mano con molte altre cose buone.
Semplicemente lui mi chiamava usando la sua arma fetente.
Quando finalmente l'ho tolto dalla sua prigione una volta a casa, la mia famiglia è fuggita spaventata.
Ma vi garantisco che fra gli acquisti fatti, questo straordinario caprino del Somerset, affinato sotto la cenere, è in assoluto il mio preferito.
Questo prodotto è un altro esempio di come la persona faccia la differenza.
I due mastri caseari Peter Humphries e Roger Longman hanno sperimentato sul latte di capra per anni ottenendo dei prodotti che adesso sono vincitori di premi internazionali.
La produzione di White Lake è limitata al mercato locale ma vi dico che se esportassero, io sarei in prima fila a comprare le loro meraviglie.
4. IL CECE DI CICERALE
Piccolo, direi pure minuto, dal colore giallo dorato con lievi sfumature marroncine, cresce in provincia di Salerno, nel comune di Cicerale, a ridosso del parco Nazionale del Cilento.
L'intensità del suo sapore è indirettamente proporzionale alla sua dimensione e secondo ricerche storiche, furono i romani ad introdurre la coltivazione di questo legume in quest'area, che chiamarono "terra quae cicera alit" ovvero terra che nutre i ceci. Cicerale ha come stemma proprio una piantina di ceci, simbolo della città e della sua fama.
La semina avviene tra marzo e aprile e la coltura non viene bagnata né concimata. La raccolta comincia a luglio e finisce ad agosto e le piantine vengono lasciate seccare al sole stese su sacchi di iuta.
Quando sono secche, si coprono con i sacchi e vengono battute con i bastoni per estrarre i legumi.
Sull'uso del prodotto, la fantasia è tutta vostra ma per quanto mi riguarda, lessato con una foglia di alloro e condito con un ottimo extravergine campano come una DOP del Cilento e macinata di pepe fresco...paradiso.
5. IL SALE DEL FIUME NZOIA
Questo è per me uno dei prodotti più sorprendenti del Salone 2014.
Ciò che vedete spuntare tra le foglie del banano, è sale di fiume.
Per l'esattezza sale del fiume Nzoia nel Kenia occidentale.
Quest'area africana è rimasta per secoli esclusa dalle tradizionali rotte del sale.
Gli abitanti locali hanno sviluppato nel tempo un originale ed ingegnoso metodo per estrarre il sale dalle piante acquatiche che crescono esclusivamente nel fiume Nzoia.
Una volta cresciute, le radici vengono estratte e fatte seccare sulle rocce del fiume. Successivamente bruciate a fuoco lento e le ceneri residue vengono mescolate a lungo nell'acqua calda e filtrate.
L'acqua viene poi fatta bollire in maniera che evapori, lasciando il sale puro sul fondo della ciotola.
Il sale viene raccolto ed "impacchettato" in fogli di banano ed asciugato sotto le ceneri calde durante la notte.
La quantità di sale prodotta serve giusto al fabbisogno locale quindi non è possibile trovare questo incredibile prodotto se non in occasioni come questa. Io l'ho assaggiato e posso dirvi che appena sulla lingua, l'esplosione del salato è immediata e fortissima ma sparisce con la medesima velocità lasciando un sentore resinoso, metallico ed affumicato. Decisamente molto piacevole.
Dal 2009 è Presidio Slow Food e mai come in questo caso il lavoro di questa realtà mi è sembrato più prezioso.
6. LA MELA ROSA DEI MONTI SIBILLINI
E' lei, proprio lei, la mela presente nella mia speciale classifica dei prodotti del desiderio.
L'ho trovata, toccata, annusata e me la sono pure portata a casa, dove è immediatamente finita dentro la pie di Jamie Oliver. 
Le storie meravigliose raccontate dalle mie amiche blogger su questo frutto, sono tutte vere e presto tornerò a parlare di lei perché se lo merita.
7. IL TORRONE DI TONARA
I dolci al Salone non mancano e posso garantirvi che se una telecamera segreta mi avesse anche solo ripresa per mezza giornata, avrebbe registrato il mio viaggio della speranza tra stand di cioccolata, biscotti, panettoni e dolciumi di ogni genere come quello di un tossico che non può fare a meno della sua dose quotidiana.
Per almeno 4 volte sono incappata nella postazione del Torronificio Pili di Tonara, ed ogni volta mi sono fermata, assaggiando di nascosto pezzettini di torrone rivestito di cialda croccante, torrone morbido, friabile, aromatizzato al mirto o al limoncello....alla fine ho trovato il coraggio di fare alcune domande alla signora in costume tradizionale, con la timidezza di un innamorato che rivolge la parola alla sua bella per la prima volta.
Ed ho scoperto cose bellissime: che questo torrone è fra i più rinomati d'Italia; che la famiglia Pili produce torrone dal 1889 grazie alla passione di Tiu Giuanneddu Pili, che girava le sagre dell'isola con il suo carretto.
Adesso, i segreti di quest'arte sono custoditi da Gianni e Patrizia (la deliziosa signora che ha risposto alle mie incessanti domande), una coppia che lavora insieme.
Con entusiasmo, sostenuta dalla comune passione per questo dolce antico e affascinante, la cui preparazione richiede ore di lavorazione e tecnica finissima.
Anche qui se il torrone di Tonara è famoso nel mondo, la differenza l'hanno fatta Gianni e Patrizia, e la faranno i loro figli continuando questa tradizione.
8. IL POMODORINO REGINA DI TORRE CANNE
Il nome di questo pomodorino è estremamente poetico e pare che la ragione di questo appellativo derivi dalla caratteristica del peduncolo che assomiglia ad una piccola corona una volta cresciuto.
Torre Canne è mare, mare di Puglia.
Si parla di alto Salento, di luoghi incantevoli come Ostuni e Fasano, della litoranea sabbiosa e del salmastro che regala a questi frutti dell'orto alcune caratteristiche molto importanti, come la buccia spessa che consente loro la lunga conservazione.
In quest'area la coltivazione dei pomodori cominciò nella seconda metà dell'800, sostituendo quella del cotone, che invece era presente sul territorio da secoli (ed era una enorme risorsa economica).
Dopo che la produzione del cotone divenne di predominio americano ed asiatico, gli abitanti di questa zona diedero al pomodoro ed al grano un grande impulso tutt'ora fondamentali per l'economia della regione.
L'aspetto affascinante è che la coltura del cotone non smise del tutto.
L'uso di coltivare il cotone fra i filari dei pomodori è tutt'ora viva: il cotone prodotto diventa poi la cordicella con cui vengono intrecciati i mazzi di pomodori che vengono poi conservati appesi.
I grappoli di pomodorini regina si chiamano "ramasole".
Tradizione vuole che la ragazza da marito che possiede molte ramasole, sia la più ambita.
Una dote specialissima, più preziosa del corredo! Mica stupidi i pugliesi.
9. IL PANNERONE DI LODI
E' l'ultimo formaggio, promesso, ma è troppo curioso per non parlarvene.
Il Pannerone è chiamato anche "il gigante lodigiano" per la sua stazza importante (12/13 kg di peso a forma, 25/30 cm di diametro per una altezza di 20 cm).
Il suo nome deriva da "panera" che in dialetto locale significa crema di latte o panna.
La sua particolarità, e vi invito ad assaggiarlo se vi capita, è la totale mancanza di salatura sia in produzione che in invecchiamento (che chiamerei più stagionatura, visto che dura non oltre i 10 giorni).
La crosta ha un colore giallo chiaro e la pasta invece è bianco panna, con tanti piccoli "occhielli" diffusi  , molto morbida e profumata.
All'assaggio mi ha lasciata completamente senza parole.
Dopo aver provato formaggi estremamente saporiti, di grande struttura, sapidità ed incredibili sfumature di sapore, ho pensato che questo formaggio non fosse buono.
Cioè avesse dei difetti.
In realtà il Pannerone è un prodotto difficile da capire per il nostro palato non abituato a codificare un formaggio senza sale.
L'impressione che si avverte è una "pseudo dolcezza" che dopo poco vira verso l'amaro, caratteristica di qualità del perfetto Pannerone. Ho scoperto che ci sono estimatori di questo formaggio, e che la sua morte è l'abbinamento con mostarde, uva fresca, confetture, miele aromatico ed anche con distillati di vinacce. Io però non l'ho inserito nella mia collezione di cacini.
10. IL TOPINAMBUR
Beh, lo conoscete tutti lo so.
Finisce nelle nostre vellutate, nelle omelette, in gustose chips fritte, in salse e zuppe, al forno o nel risotto. E' un tubero conosciuto anche come Carciofo di Gerusalemme ed effettivamente il sapore ricorda proprio quello del carciofo.
Io non ho potuto fare a meno di soffermarmi per ammirarlo in tutta la sua bitorzoluta bellezza ed ho trovato che non assomigli per nulla alla radice che a volte mi capita di comprare al supermercato.
Purtroppo la maggior parte delle volte trovo dei topinambur rinsecchiti, piccoli, dal colore spento.  Mi passa la voglia di comprarli.
Preferirei decorare la tavola con un mazzo di quelle margheritone gialle da cui provengono.

lunedì 20 ottobre 2014

Pane dolce allo zafferano di Navelli e polvere di liquirizia

Scarborough fair - Simon & Garfunkel live
Proseguendo il conto alla rovescia che mi porterà a partire per Torino il prossimo 23 ottobre, vi racconto cosa mi troverò a fare in quel meraviglioso Salone del Gusto che vede riunirsi migliaia di prodotti e produttori da ogni parte del mondo.
Che per un amante di cibo è meglio di un Eldorado o del paese delle Meraviglie.
Grazie al progetto Unforkettable di Garofalo e Niko Romito, sarò al salone come ambasciatrice AIFB (Associazione Italiana Food Blogger) ed avrò un compito come altri 19 soci AIFB che con me vivranno questa esperienza: raccontare un prodotto, un produttore ed una ricetta durante lo show cooking della brigata di Niko Romito.
Il prodotto a me assegnato sono le acciughe.
Che per una terragnola come la sottoscritta è una bella sfida. Ma sto studiando e preparandomi quindi al mio ritorno vi racconterò tutto, ma proprio tutto di questo meraviglioso piccolo pesce tanto amato dalla tavola italiana.
Lasciando da parte l'ansia che già sale come una marea, cerco di concentrarmi sul pre-salone e sulla richiesta che ci è stata fatta, di individuare un prodotto dell'Arca Slow Food con cui preparare una ricetta.
Tutti i prodotti dell'Arca sono difficilmente reperibili proprio perché fortemente territorializzati e spesso restano un miraggio per chi non ha la possibilità di viaggiare seguendo il proprio palato.
Lo scorso maggio ho avuto l'opportunità di trascorrere una giornata a l'Aquila, al Salone dei Parchi e proprio lì ho trovato lo Zafferano di Navelli.
L'oro in polvere si ottiene dagli stimi essiccati del fiore Crocus Sativus (proprio vicino a Siena abbiamo una discreta produzione di zafferano a S. Gimignano, che fiorisce per la festa di S. Fina, come un piccolo miracolo).
In Abruzzo cresce sull'altopiano di Navelli, di cui vi ho già parlato in un altro post, avendo utilizzato i ceci minuscoli e dolci prodotti proprio lì.
L'altopiano si trova tra i parchi del Gran Sasso e del Sirente Velino e grazie al clima asciutto e ventoso, trovano il loro habitat ideale.
I fiori vengono raccolti ancora chiusi alle prime ore del mattino, sistemati in canestri di vimini ed aperti con le unghie, uno per uno (vi immaginate il lavoro), per poi strappare delicatamente gli stimmi dallo stelo.
Una volta finita la sfioratura, i pistilli sono appoggiati su un setaccio posto sulla cenere calda del camino e vengono tostati lentissimamente.
Parte degli stimi vengono macinati ed altri venduti così come sono (io ho utilizzato gli stimmi per questa ricetta), in vasetti da un grammo. Tanto per indicare quanto siano preziosi.
I fili ovviamente sono più pregiati perché oltre ad aromatizzare intensamente, sono splendidi come decorazione di piatti e ricette.
Ecco la ricetta di questo pane super aromatico e facile da fare che ho modificato da una ricetta trovata in un vecchio numero di Sale e Pepe.
400 g di farina di tipo 00 (io ho usato 200 g di 00 e 200 g di farina forte)
140 g di scorza di arancia siciliana candita
170 g di zucchero semolato
1.5 dl di latte
6/7 scaglie di liquirizia dura, tipo Amarelli
3 cucchiai di liquore abruzzese Aurum, all'arancia
un pizzico di zafferano in stimmi
12 g di lievito di birra
50 ml di olio extravergine Trevi DOP emulsionato con 50 ml di acqua
un pizzico di sale
Riducete le scorze candite in dadini di c.ca 5 mm di lato.
Metteteli in ammollo con il liquore (se non avete l'Aurum che è tradizionalmente di terra d'Abruzzo), potete tranquillamente usare del Rum. Lasciateli macerare per c.ca 1 ora.
Preparate il lievitino, intiepidendo il latte dove scioglierete il lievito di birra con gli stimmi di zafferano ed un cucchiaino di zucchero fino a che il lievito non comincerà a fare la classica schiumina in superficie (ci vorranno c.ca 10 minuti).
A questo punto versate il lievito in una ciotola larga con 50 g di farina. Mescolate bene affinché i grumi si sciolgano e lasciate in luogo tiepido per almeno 30 minuti.
Quando il lievitino avrà raddoppiato di volume, versatelo nella planetaria ed aggiungete la farina rimanente, 150 g di zucchero, i canditi con il liquore, l'emulsione di olio ed acqua, un pizzico di sale, ed impastate a velocità media per almeno 10 minuti. Se l'impasto vi sembrasse duro, aggiungete dell'acqua, con molta attenzione, un cucchiaio alla volta, fino a che l'impasto non starà insieme ed avrà una consistenza morbida e liscia. La quantità di acqua dipenderà dalla farina che utilizzerete.
Mettete l'impasto in una ciotola oleata, incidete con una croce e coprite con una pellicola. Fate lievitare per almeno 2 ore in luogo tiepido (io uso il forno con la lucina accesa).
Vedrete la vostra pagnotta bella gonfia.
Rovesciatela sulla spianatoia, sgonfiatela con i pugni, impastatela per qualche minuto quindi sistematela in uno stampo di 26 cm di diametro, incidetela nuovamente e proseguite con la seconda lievitazione, per almeno 45 minuti.
Prima di mettere in forno, preriscaldato a 200°, spennellate la superficie con poco olio extravergine, cospargete con lo zucchero rimasto e la polvere di liquirizia.
Fate cuocere per c.ca 35 minuti.
Una volta cotta, battete sotto il pane e se suona a vuoto, il pane è pronto.
Fate raffreddare su una gratella e servite tiepido o freddo.
Splendido tostato al mattino.


mercoledì 15 ottobre 2014

Torino Salone del Gusto: la mia personale Top Ten ed il conto alla rovescia.

Dieci ragazze per me - L. Battisti
Una settimana all'inizio del Salone.
Così è chiamato da chiunque graviti intorno al mondo food, con un misto di rispetto e soggezione.
La mia prima volta è stata due anni fa e posso dire che mi sembra solo ieri per l'intensità di emozioni provate, persone incontrate ed incredibili prodotti passati sotto il mio palato.
Quest'anno si ritorna, nuovamente ospiti di un protagonista assoluto come Garofalo, senza avere la più pallida idea di cosa aspettarmi da due giorni di follia gastromobile.
Quello che posso solo augurarmi è di poter trovare questi (per me) "magnifici 10", che vorrei scoprire, riassaggiare, toccare e possibilmente, alla fine della giostra, portarmi a casa.
Tutti rigorosamente in ordine alfabetico.
1. La Cuddrireddra di Delia
Cosa sarà mai vi chiederete.
E' un dolce, che ho scoperto proprio al Salone di due anni fa. Il primo incontro  gironzolando in solitaria tra gli stand della Regione Sicilia. Ed il produttore fu così carino che siamo rimasti a parlare per un quarto d'ora di quanto incredibile e rara sia la storia di questo biscottino.
Preparato ancora dalle mani delle donne di Delia, in quanto non è possibile riprodurre la sua forma, che assomiglia ad una piccola corona puntuta, utilizzando macchinari.
Anche la sua storia è particolare. Pare che sia un omaggio alle castellane che vivevano a Delia durante il periodo dei Vespri Siciliani. Grano duro, uova, strutto, scorze di arancia e cannella. Il tutto fritto in olio profondo. Un morso e l'intensa croccantezza speziata ti trascina in un caleidoscopio di sensazioni, che a me hanno riportato alla tavola di Natale, ai suoi profumi, a me bambina.
Spero che ci siano al Salone. E se ci andrete, cercatela, la Cuddrireddra
2. La Farina di grano arso
Per trovarla dovrete scendere fino in Puglia, a meno che non sia anche lei al Salone. E se ancora non ne avete provato il sorprendente gusto tostato e lievemente affumicato, non avete gustato l'essenza più vera della cucina pugliese. Quando ancora il grano si batteva sulle aie, vi era l'uso dei contadini della zona, di bruciare le stoppie ed i chicchi che restavano sulla terra, venivano raccolti dalle donne (perché nulla poteva essere sprecato) e macinati successivamente. I chicchi tostati dal fuoco, producevano questa farina dal colore della cenere e dal sapore unico. Strascinati di grano arso, cime di rapa e ricotta forte. Mi basta questo per un viaggetto in paradiso.
Uno dei frutti del mio cuore: il fico. Ma questo, che cresce in una regione di prodotti meravigliosi, è speciale. Piccolo, dalla buccia verde chiarissimo e dal cuore rosato, quando secca diventa rotondo e bianco e viene generalmente arricchito con mandorle e frutta secca dalle donne della zona. E' privo di filamenti che lo rendono particolarmente morbido anche quando viene disidratato ed è assolutamente meraviglioso da usare nelle preparazioni dolci. Lasciamo perdere la marmellata, assolutamente da capogiro. 
Aver letto di questa mela così speciale attraverso i blog di amiche, e non aver ancora avuto l'opportunità di vederla da vicino, annusarla e scoprirne il gusto, mi procura un senso di mancanza. Di disagio nervoso, come quando passi davanti ad una vetrina e vedi una borsa che sai non potrai mai permetterti. Sta lì, la guardi, sospiri e passi dritta.
Ecco, Mela rosa dei Monti Sibillini, ti ho dichiarato caccia grossa e ti stanerò dal catalogo del salone per venire a trovarti e portarti via.
A parte scherzi, questa  piccola mela è autoctona delle Marche e cresce tra i 450/900 metri di altezza in particolare sui versanti dei Monti Sibillini, vicino all'Umbria.E' un frutto piccolo, modesto e poco appariscente, dalla buccia grigiorosata, con un profumo intenso e molto aromatico (che ovviamente non vi so raccontare). Siccome viene raccolta tra agosto e ottobre, io mi aspetto che a Torino ci sia. Vero?
Si, proprio lei. Anche se sono Toscana, e vivo nel cuore di una zona in cui si producono salumi che meriterebbero delle standing ovation, io cerco la Mortadella di Prato. 
Non so se per campanilismo o per strategie commerciali, ma in terra di Cinta, non si trova la Mortadella di Prato.
E per chi non la conosce, non si aspetti di vedere un salume vagamente somigliante alla più conosciuta Bologna. La mortadella di Prato sembra più un salame, a grana grossa, morbida, di colore rosato opaco, e dal profumo inconfondibile. Nell'impasto viene aggiunto l'alchermes, come facevano le nostre nonne nelle loro preparazioni dolci, per dare un profumo speciale. E' un salume raffinato ed antico e spero di trovarlo al Salone. 
6. Il pane nero di Castevetrano
Non me ne vogliate ma ho una propensione verso il sud del mondo ed in questo caso i prodotti del nostro meridione la fanno da padroni nella mia lista speciale. Ho assaggiato questo pane grazie a mio marito che me ne portò un po' dopo un viaggio a Castelvetrano, abbinato al loro straordinario extravergine Nocellara. Dopo anni mi sogno ancora quell'aroma di tostato, dato da un frumento antico chiamato Timilia. Il pane diventa nero durante la cottura, effettuata solo nei forni a legna e la crosta ha il colore del caffè ed è cosparsa di semi di sesamo. Il mio pellegrinaggio nel padiglione della Sicilia sarà quello di una cercatrice d'oro nero.
7. Le paste di Meliga
Sono irriducibile. Mi piacciono i dolci e questi biscotti, che ho assaggiato per la prima volta proprio al Salone due anni fa, mi sono rimaste nel cuore. Un po' come i Crumiri e come tutti quei biscotti dall'anima rustica e paesana. L'uso della farina di mais conferisce una grana ruvida e pastosa a questi dolcetti, ma ciò che li rende assolutamente irresistibili è l'uso del burro di alpeggio, che li profuma e dona loro una friabilità unica. Sono certa che li troverò. Ci conto.
8. Il puzzone di Moena
Il nome mi ha sempre fatto simpatia. Ma se dovessi dirvi com'è questo formaggio, non potrei, perché non l'ho mai assaggiato e neanche visto da vicino.
So benissimo dove viene prodotto, nel cuore delle Dolomiti. Conosco Moena, luogo incantevole, le sue malghe, ma mi manca lui, il famigerato puzzone dal profumo penetrante e la tradizionale crosta color rosso mattone. La lavorazione di questo formaggio è particolare: durante la stagionatura ogni forma deve assolutamente essere lavata una volta alla settimana, a partire da 90 giorni fino a 16 mesi. Si produce solo da giugno a settembre in alpeggio....quindi io lo so che ci sarà a Torino...basterà seguirne il profumo.
Prima di tutto non è nero, ma di un verde scuro intenso. Cresce nella zona di Trevi, Montefalco e Bevagna e si ottiene lasciandolo crescere senza lavorazioni speciali, ovvero senza sbiancamenti.
Ancora non ho avuto il piacere di assaggiarlo, ma amici della zona me ne hanno raccontate meraviglie: assolutamente privo di filamenti (e questa è una roba che mi fa uscire di testa), ha una base panciuta ed un cuore molto tenero e ricco di polpa. La sua struttura consente ai locali di realizzare una ricetta che mi incuriosisce non poco e che spero di poter assaggiare presto: il sedano nero ripieno.
A metà ottobre vengono raccolti ma la produzione è molto limitata, circoscritta alla sua area. Ci sarai a Torino caro Sedano Nero? Spero davvero di si.
Finisco con una delle verdure che amo di più, il carciofo, di cui ho parlato spesso e volentieri in questo blog. Il piccolo carciofo di Perinaldo è una scoperta recente, grazie a svariati viaggi verso la Liguria. Cresce nella provincia di Imperia da maggio a giugno. Piccole teste di colore violetto, senza spine e cuore delicato. Sono conservati al naturale o sott'olio ed una preparazione speciale è quella destinata ai gambi, assolutamente deliziosi e privi di cuore fibroso. So per certo che non li troverò freschi, ma in barattolo è sempre comunque una festa. 

E voi, conoscevate questi prodotti? Vi ho incuriosito? Magari potreste raccontarmi il vostro prodotto del cuore.