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lunedì 4 gennaio 2016

Calendario del cibo italiano: la Giornata Nazionale degli involtini di verza

Stay with me - Sam Smith
Continua la meravigliosa avventura del Calendario del cibo Italiano.
Oggi è la Giornata Nazionale degli Involtini di Verza e la nostra Ambasciatrice è Ottavia Bielli del blog Mirepoix.
Potrete leggere il dettagliato racconto di questo piatto direttamente sulla pagina ufficiale del Blog AIFB  e godere dei numerosi contributi rilasciati su questo argomento.
Sembrerà folle ma neanche oggi ho potuto rinunciare a partecipare ai festeggiamenti, pur essendo stata ieri Ambasciatrice dei Cavatelli.
Questo piatto ha per me un valore affettivo fortissimo, profondo ed è legato a doppio filo (ovviamente, trattandosi di involtino) alla figura della mia nonna materna Teresa, detta Gina.
Non per nulla questa è una ricetta che ritorna su questo blog dopo ben 5 anni.
Uno delle primissimi post da me pubblicati (mi pare addirittura il terzo) e che forse più di altri racconta di come il cibo sia soprattutto un fatto emozionale ed emotivo, legato alla memoria delle piccole cose e delle persone che ci hanno cresciuto ed amato.
Mia nonna Gina era una donna d'acciaio, sia fisicamente che nel carattere.
Piccola, minuta, capelli neri come la pece ed uno sguardo affilato come la lama di un coltello.
Era il terrore dei figli e dei nipoti.
Quando andavamo a trascorrere le estati al lago di Garda, dove viveva, sapevamo benissimo che più lontano le saremmo stati e meno avremmo attirato le sue furie.
Si, perché la Gina non era la classica nonna tutta coccole e regalini, quella che si ferma a giocare con te ed a raccontarti le storie.
Quello piuttosto era mio nonno Donato, suo marito, di cui ho già raccontato ampiamente in passato
Lei era un carabiniere a cui non sfuggiva nulla, una furia della natura che avrò visto ridere di gusto solo una decina di volte nella mia vita.  Di pochissime parole, ma giuste per farsi capire e farti rigare dritto in un attimo.
Aveva un radar per le bugie e le malefatte: le bastava cambiare il tono della sua voce baritonale per far scendere il gelo intorno alla tavola.
In compenso era instancabile, non aveva paura di niente, era in grado di fare lavori maschili pesantissimi, si sciroppava 4 + 4 km a piedi lungo mulattiere impossibili che da casa la portavano al paese, giù al lago, con maggiore agilità di noi ragazzini. Al ritorno, tutto in salita, ci umiliava definitivamente arrivando a casa molto prima di noi.
Non era una cuoca sopraffina ma era una che sapeva far rinascere il nulla. Come tutte le donne figlie della guerra, non sprecava la minima briciola e le mie colazioni più belle sono state a casa sua, con i panini raffermi inzuppati in tazzoni di latte caldo. Il suo budino al cioccolato era un modo non parlato per farsi voler bene ed i suoi formidabili cavalli di battaglia erano lo spiedo e gli involtini di verza.
Con lo spiedo, era lei che gestiva il fuoco e controllava la lenta cottura della carne, irrorando di burro raccolto via via dalla leccarda, i lunghi spiedi da cui sfrigolavano pezzi lucidi di carne e patate.
Mentre scrivo, posso sentirne il profumo ed il sapore pieno e sapido in bocca e quando nella vita si assaggiano cose di tale bontà, si finisce col cercare per sempre quello stesso irripetibile gusto.
Gli involtini invece, sono un piatto che mi parla di lei attraverso le parole di mia madre, perché la verità è che non l'ho mai vista prepararli.
Mia madre sa quanto questa ricetta mi faccia pensare a nonna Gina e me li prepara spesso, sapendo che così sazia più un bisogno del mio cuore che del mio stomaco.
Ho capito ed imparato ad amare profondamente mia nonna solo da adulta, quando era più facile sedersi accanto a lei, ormai fragile ma sempre lucidissima, per farsi raccontare le sue storie.
Dai vent'anni fino al giorno in cui si è spenta, non perdevo occasione per stringerla (mi sembrava così piccola fra le mie braccia) e lei trovava comunque il modo per borbottare bonariamente che la stritolavo.
Che mi manchi moltissimo non descrive il vuoto che ha lasciato.
La mia nonna Gina e mia madre 
In tempo di Guerra la carne non era disponibile quindi questi involtini erano fatti primariamente con pane, aglio e prezzemolo. Successivamente, con il benessere, anche nonna arricchì il ripieno alla sua maniera, utilizzando comunque avanzi e recuperando pane raffermo e quello che trovava in frigorifero.

Gli involtini di verza di nonna Gina
Ingredienti
Involtini di verza di Nonna Gina.
-         400 gr di carne arrosto avanzata
-         80 gr di salame crudo, o salsiccia o mortadella a vs. piacere.
-         30 g di pane raffermo ammollato in acqua e ben strizzato 
-         3 cucchiai di parmigiano
-         3 cucchiai di pan grattato ( a vs. piacere)
-         50 gr. di prezzemolo tritato
-         1 spicchio d’aglio tritato
-         1 uovo
-         sale, pepe, noce moscata, q.b.
-         1 piccola verza (in Toscana è il Cavolo cappuccio) di c.ca 600 gr.
-         brodo vegetale
-         una cipolla
-         pancetta dolce a dadini 
-         vino bianco
Preparate le vs. polpettine tritando la carne nel mixer (io non la faccio troppo fine perché è piacevole sentire una certa consistenza quando si mastica) insieme al salame, quindi aggiungo il parmigiano, il pan grattato, il pane ben strizzato e sbriciolato, l’aglio e il prezzemolo, l’uovo, il sale, il pepe e la noce moscata, e mischio tutto in una ciotola (ben bene con le mani perché i sapori si devono mischiare).
Preparo poi delle polpettine grandi come noci.
Successivamente scelgo le foglie più belle della verza, eliminando le prime più dure e le faccio lessare per un paio di minuti( 4 o 5 alla volta) in una capiente pentola con acqua bollente salata. 
Le faccio asciugare su un canovaccio, tamponandole se necessario con carta assorbente.
Dopo avere eliminato la costa centrale e diviso le foglie a metà, comincio a confezionare i miei pacchettini di verza mettendo al centro una polpettina e chiudendo la foglia con un filo di rafia (o altra cordicella alimentare). 
Questa e l’operazione più laboriosa, ma ci prenderete presto la mano.
Con questa quantità di impasto, dovreste ottenere c.ca 25 involtini.
Se avete un bel coccio di terracotta, sarà perfetto per la cottura. 
Preparate la cipolla tritata e la fate passire con la pancetta in 2 bei cucchiai di olio extra vergine (in Lombardia usano il burro). 
Quindi ponete i vostri involtini nel coccio e fateli rosolare qualche minuto quindi fate sfumare un po’ di vino bianco. Quando il vino si è tirato, cominciate la cottura versando via via del brodo vegetale caldo, coprite e proseguite per c.ca 30 minuti. 
Lasciate che gli involtini assorbano il brodo formando un delizioso sughetto alla fine.
Io li servo con del riso bianco, Arborio o Vialone che si insaporisce con il sughetto degli involtini.



lunedì 11 febbraio 2013

Marmellata di arance e le storie del Belèssa.

Amarcord - N. Rota
Appena calava il sole, correvamo a guardarlo. 
Sapevamo di trovarlo là, con la falce in mano. Faceva lenti movimenti circolari, ritmici, perfetti e la lunga erba che un minuto prima era lì, alta quasi fino alle ginocchia, adesso formava mucchietti di fieno che lui sistemava ordinatamente intorno a sé. 
Noi bambini sedevamo sul prato, le ginocchia fra le braccia e lo osservavamo in silenzio, ipnotizzati. 
Il suono della falce era un sibilo di vento. 
La lama luccicava fra l'erba. 
Il nonno era grande. O almeno io lo ricordo così. Spalle larghe, forti, un bel portamento elegante. Era alto ed aveva un'espressione mite, rassicurante. Ricordo la sua onda nei capelli anche quando era scarmigliato. 
Lavorava la sua campagna silenzioso ed ogni tanto ci lasciava usare il rastrello di legno che era così lungo da doverlo tirare in due. 
Quando aveva finito con la falce, si sciacquava nella fonte, si sedeva sotto la pergola accanto al tavolo di pietra, e si rollava una sigaretta. 
Mi chiedevo ogni volta come riuscisse a prepararsi una sigaretta così sottile con quelle manone. 
Usava una scatoletta magica: sfilava una cartina da una piccola busta, prendeva un pizzico di tabacco  da una tasca e delicatamente riempiva lo spazio concavo sulla cartina appoggiata alla scatola. Poi chiudeva il coperchio e la sigaretta usciva rotolando dall'alto. La magia era fatta. 
Fumava piano, tenendo la cicca tra il pollice e l'indice, lo sguardo sempre rivolto al suo lago. Finita la sigaretta, si faceva un bicchiere del suo vino e se ci avvicinavamo, ce lo offriva inzuppando un pezzetto di michetta. 
Se era buono quel pane colorato di rosso. 
In paese lo chiamavano El Belèssa. Era figlio del Belèssa, il mio bisnonno che non ho mai conosciuto e come lui si meritò questo appellativo. Il Bellezza. 
Di conseguenza mia madre, anche lei bellissima, divenne "la fioea del Belèssa". 
Un nonno bello anche quando si ammalò e perse la parola, lui che amava tanto raccontare. 
Negli ultimi tempi, nel letto d'ospedale, il suo più grande dispiacere era non poter parlare con noi. 
Si arrabbiava come una furia e nel tentativo di articolare qualche suono, potevamo riconoscere le sue classiche parolacce in dialetto. Allora scoppiavamo a ridere come matti (trattenendo un groppo in gola) e lui si calmava e rideva con noi.
In quelle sere d'estate trascorse al lago, ci sedevamo all'aperto e ascoltavamo sue avventure. Aveva una voce baritonale, sicura e parlava un bell'italiano interrotto ogni tanto da qualche parola dialettale. Questo rendeva tutto più colorito. 
Il nonno ci rapiva ogni volta con la storia del "Regolo". 
Nelle valli intorno alla casa dei nonni, si trovavano spesso serpenti, salamandre, ramarri e non era difficile incontrare vipere. 
Noi bambini eravamo costantemente avvisati: e non salite sulle rocce, e non camminate nell'erba alta, e attenti a dove mettete le mani....insomma una vera e propria litania di raccomandazioni. 
Che venivano puntualmente ignorate. 
Il nonno invece ci incuteva un terrore senza limiti con una semplice storia. 
"Il Regolo è il re dei serpenti. Quello che ha vissuto più a lungo e che può arrivare ad oltre cento anni. Allora si trasforma e diventa il Regolo. E' velenoso e terribile ma è cieco, corto e tozzo, non può muoversi con velocità. 
Ha la testa grossa come quella di un gatto e se si sente in pericolo emette un fischio che richiama a sé tutti i serpenti della zona. Allora tu sei spacciato". 
Il nonno affermava di averlo visto da lontano in una piccola radura e che, senza farsi accorgere lo aveva sorpreso ed ucciso con una badilata. Lo aveva poi infilato in un sacco e mostrato a mia nonna, ma non a mia madre, perché a quel tempo era incinta di mia sorella e si sarebbe spaventata. 
La fantasia di noi bambini andava al galoppo. Eravamo curiosi e al contempo terrorizzati. Avremmo voluto vedere questo Re dei Serpenti e magari incontrarlo, ma per tutta risposta finivamo col sognarcelo la notte e risvegliarci madidi di sudore. 
Il nonno rideva di gusto a vederci così spaventati e ripartiva con un'altra delle sue meravigliose storie. 
Le sere d'estate volavano via dietro la sua voce.
Questa è una foto di mio nonno Donato scattata da un fotografo tedesco che passava per la mulattiera lungo la quale sorge la casa dei miei nonni. 
Stava scattando foto al paesaggio e quando vide mio nonno, allora già over 70, gli chiese di posare per una foto. Stava andando nella sua campagna come ha fatto per tutta la vita fino al giorno in cui l'ictus si è portato via le sue parole e le sue gambe.
Io lo ricordo sempre così, con i suoi attrezzi ed io suo bel sorriso sincero.  
Mio nonno amava mangiare bene
Mia nonna Gina non amava molto cucinare e preparava spesso le solite cose, che però erano piatti portentosi. Ma mia madre, da grande, quando ormai sposata aveva imparato a cucinare dei buoni mangiarini, viziava mio nonno ogni volta che andavamo al lago. Lui era goloso di dolci ed una delle suo cose preferite era la zuppa inglese ed i biscotti inzuppati nel vino. 
Quando mi sarei divertita a coccolarlo con il cibo se ci fosse ancora. 







Questa ricetta è da un po' che aspetta di essere pubblicata. 
La coincidenza ha voluto che l'ultima volta che ho parlato del lago, stessi preparando la confettura di albicocche. 
Questa volta sono arance, in una ricetta abbastanza semplice e veloce anche se richiede una discreta pazienza e l'uso di arance buonissime! 
Marmellata di arance (per c.ca 6 vasetti medi)
2 chili di arance bionde di Sicilia
1 chilo di zucchero
il succo di 2 limoni
2 cucchiai abbondanti di buon Rum
Pelate la buccia di un'arancia togliendo accuratamente solo la parte arancio e tagliatela a julienne sottili. Mettete acqua fredda in un padellino, aggiungete la scorza a julienne. Portate a ebollizione quindi scolate. Ripetete l'operazione 3 volte. Questo serve ad eliminare l'amaro dalle scorzette. Tenete da parte.
Adesso comincia il lavoro più lungo. Dovete pelare al vivo le arance. Usate un coltellino affilato con lama a seghetto e togliete quanto più bianco riuscite perché nella cottura è proprio lui a rilasciare l'amaro. 
Versate la polpa dell'arancia in una larga pentola (possibilmente antiaderente) ed aggiungete lo zucchero. Mescolate e cuocete a fiamma vivace per almeno 40 minuti. La frutta comincerà a schiumare ma non c'è bisogno che togliate la schiuma. Piano piano, con la cottura, si assorbirà. 
Dopo c.ca 40 minuti, il composto sarà ancora liquido. Se a voi piace la marmellata senza pezzetti di frutta, potrete a questo punto passare velocemente il mixer a immersione, altrimenti lasciate tutto così com'è ed aggiungete le scorzette. Proseguite la cottura per almeno altri 30/40 minuti, monitorando la densità della marmellata. Scegliete il vs. grado di cottura, ma ricordate che raffreddandosi la marmellata diventa più "dura". Io ho preferito lasciarla un po' più morbida. 
Una volta pronta (se volete, fate la prova piattino, ovvero controllate se una goccia di marmellata versata sul piattino scivoli fluida o molto lentamente. Nel secondo caso la marmellata è pronta), spegnete la fiamma e versate il succo dei limoni ed il rum nella marmellata ancora calda. Mescolate bene e versate immediatamente in vasetti sterilizzati. Tappate con cura e capovolgete. Fate raffreddare e conservate al fresco, possibilmente in un luogo lontano dalla luce. 
Se attendete un mese prima di consumarla, sarà sicuramente ancora più buona. 

lunedì 23 luglio 2012

Confettura di albicocche e il sogno del Lago.

Dream a little dream - The beautiful South
Il mio bioritmo ha la velocità di una lumaca impigrita
Lo so, sono egoista. Ho da poco fatto una settimana di ferie e mi vorrei lamentare a sangue del fatto che non mi è bastata. Stanca ero prima di partire, stanca lo sono adesso. Forse non proprio stanca: pigra
Sono sparita dal mondo senza dire nulla. Sono scappata in uno dei luoghi della mia infanzia e adolescenza insieme a mia figlia e mia madre ed ho oziato al suono delle cicale e del ruscello nella valle per ben 6 giorni. 
Ma l'emozione di ritornarci dopo ben 8 anni, ha fatto si che per tutta la durata del soggiorno avessi ben chiaro il fatto di dovermene andare presto. E questo non è bene. 
Infatti adesso la malinconia mi uccide e d i giorni passati mi sembrano solo un sogno. 
Perché quella che è stata la casa dei miei nonni materni che adesso non ci sono più e mi mancano intensamente, è per me uno dei posti più belli al mondo
Quel luogo e' oggettivamente bellissimo ma è magico per tutta un'altra valanga di ragioni, dette altrimenti ricordi. La casa, molto vecchia, è stata completamente recuperata da mio cugino e trasformata in una dimora deliziosa che nel tempo diventerà una casa-vacanze o un bed and breakfast. Però, nonostante nulla sia più come prima, a parte lo scheletro originario, quando sono entrata in cucina ho sentito quell'odore così familiare di camino misto a legna ed ho avuto un piccolo choc. Non esiste più il camino, né la legna, ma l'odore è ancora lì. 
La casa dei miei nonni si trova sul Lago di Garda, in collina a soli 4 km dal piccolo e splendido borgo di Gargnano sul Garda (versante bresciano). Dalla casa si vede tutto il lago e con lo sguardo puoi abbracciare il Monte Baldo, Sirmione e Riva del Garda senza sforzo. 
L'abitazione dove ho trascorso tutte le mie estati fino a che ci sono stati loro, i miei cari nonni, non aveva il bagno in casa e questo aspetto l'ha resa per noi bambini, ancora di più mitica e avventurosa, perché per fare pipì "c'era il vasino lì" (nascosto sotto il letto), oppure si correva nel bagno, situato nel retro della casa vicino alla valle, in quel gabbiotto predisposto alla bisogna, popolato di ragni e strani insetti di quella selvaggia natura. Che nel nostro ricordo si sono trasformati in piccoli mostri, belve da combattere e motivo di irrefrenabili risate. 
Incomprensibilmente, più passa il tempo più mi sento legata a quel posto. Capisco i momenti di profonda tristezza che affronta mia madre quando le viene nostalgia del suo Lago, perché essere nata e cresciuta in un posto così, con la lontananza non può che trasformassi in una ferita costantemente aperta. La promessa che mi faccio è di tornarci presto. Anche solo per un week end, anche solo per svegliarmi con il suono del ruscello che corre a valle e l'azzurro del lago tra le persiane. 
Vi lascio alcune immagini dei miei posti per farvi sognare come ho fatto io in questi giorni:


La casetta gialla che prima era grigia con le persiane rosse


La campagna dove abbiamo giocato, corso, preso il sole, combinato pasticci e ci siamo voluti bene
Il ruscello che canta giorno e notte e che corre fino al Lago. Questo è il suono che accompagna la vita in queste valli:
Un occhio vigile a protezione della casa e della campagna e di noi villeggianti distratti.
I fiori di cappero osservano il lago con amore.
Durante questi giorni di relax, ho trovato anche il modo per divertirmi dietro ai fornelli, preparando una confettura di albicocche del lago di cui sono veramente orgogliosa per la bontà ed il risultato. 
La ricetta è di Annalisa Bargagli ma devo confessare di averla "personalizzata" visto che ho praticamente preparato 5 kg di albicocche dagli alberi della campagna di nonno e l'ho fatto in 2 mattinate con quantità diverse. Questo mi ha permesso di "misurare" l'uso dello zucchero trovando l'equilibrio che ritengo perfetto con la frutta di cui disponevo, estremamente zuccherina e saporita. Quindi ho ridotto un poco la quantità da lei consigliata ottenendo comunque una composta magnifica. Però come consiglia Annalisa Bargagli, mai scendere sotto il 50% di zucchero per 100% di frutta, altrimenti si rischiano problemi di conservazione.
Vi indico qui di seguito la sua ricetta e le mie variazioni:
- 1200 gr di albicocche mature
- 700 gr di zucchero semolato (io ho usato 500 gr per ogni kg di frutta
- 1 bicchiere d'acqua
- il succo di un piccolo limone 
AROMA: per la metà dei miei vasetti, ho utilizzato i semini di una bacca di vaniglia bourbon per ottenere una confettura di albicocche vanigliate. 


Dopo avere sterilizzato i vasetti  procedete alla preparazione della confettura. Lavate con cura, eliminate i noccioli e tagliate in pezzi non troppo piccoli (io in 4 parti), le vostre albicocche. Versate l'acqua in una capiente pentola dal fondo pesante insieme allo zucchero e fate cuocere a fuoco vivo fino a che non otterrete uno sciroppo e si formeranno sulla superficie delle bolle piuttosto grosse. A questo punto aggiungete la frutta ed il succo di limone e mescolate bene. Fate cuocere sempre a fuoco vivo per una 20/30 minuti, mescolando ogni tanto. Noterete che dopo c.ca 10 minuti si formerà una schiuma chiara, che con la cottura e mescolando, si diluirà e scomparirà. Potete cuocere per il tempo utile ad ottenere la consistenza preferita ma sappiate che già dopo 20 min. la confettura è pronta per essere invasata. Io ho cotto sempre c.ca 30/35 minuti ottenendo una confettura dalla consistenza morbida (a me piace molto morbida visto che la uso spesso con dolci e crostate, e cuocendo nella frolla si indurisce al punto giusto).
Avendo fatto moltissimi vasetti, ho anche destinato una quantità ad essere passata con il mixer ad immersione, così da avere una gelatina da usare per dolcetti tipo occhi di bue o come copertura di torte da glassare. Vi confesso che ho già dato fondo ad un paio di vasetti per le mie colazioni e sono molto soddisfatta di questa ricetta. Grazie ad Annalisa Bargagli! 


E non dimenticate di partecipare al mio primo Contest "La commedia è servita! 



martedì 1 febbraio 2011

Gli involtini di verza - ovvero il sapore della memoria

  Amapola – J. LaCalle
Quando ho deciso di cominciare questo blog, ero convinta che l’amore e la curiosità verso la cucina ed il cibo fossero la motivazione portante, la cosiddetta “scintilla”. Ma andando avanti – e la strada percorsa è davvero ancora molto breve – mi sto rendendo conto che il blog altro non è che il contenitore perfetto della nostra memoria.
Il blog diventa un’ancora a cui ci aggrappiamo per recuperare pezzetti della nostra vita che altrimenti andrebbero perduti, la memoria di gesti d’amore che ci sono giunti attraverso sapori indimenticabili prodotti da mamme, nonne, donne meravigliose che spesso ci mancano.
E siccome per tutte noi “gastronome sentimentali”, cucinare è “servire amore”, ci ritroviamo a ripetere gesti che abbiamo visto fare alle donne della nostra vita, tentando per un attimo di riportarle a noi.

Ho avuto la fortuna di nascere da genitori provenienti da luoghi antitetici l’uno dall’altra. Mia madre nata sul Lago di Garda ha incontrato mio padre, di Roma e sono insieme da quasi 46 anni, dimostrando che le teorie leghiste poco si accordano con i sentimenti. Questa coppia così variegatamente assortita, aveva alle spalle due famiglie molto diverse ma simili nella povertà e nella difficoltà del vivere nell’Italia del dopoguerra.
Mia nonna materna, di cui parlerò oggi, nonna Teresa per tutti Gina, ha cresciuto 4 figli. Durante la  guerra, nonno Donato era soldato e lei è rimasta sola a casa, con 2 bimbi piccoli ed uno in arrivo (mia madre). Situazione comune per tutte noi che abbiamo genitori figli della guerra.
Viveva a Gargnano sul Garda, cuore della Repubblica di Salò (avete presente Villa Feltrinelli, la casa del Duce?), uno dei borghi più belli del lago, in una casa in cima alla montagna, collegata al paese da una mulattiera allora quasi impraticabile. Ho trascorso la mia infanzia in questo posto ed è per me uno dei più belli al mondo: pensate solo di alzarvi la mattina con il rumore del ruscello che corre in fondo alla valle, ed affacciandovi alla finestra possiate vedere il lago in tutta la sua lunghezza da est ad ovest. Alle vostre spalle s’inerpica la collina fino a diventare montagna. 
Immaginate intorno a voi prati verdi costellati di margheritine e piccole orchidee selvatiche, il tutto a coprire morbide colline terrazzate, e vigne e olivi ed alberi di amarene carichi di frutti nel mese di luglio. 
Immaginate il rumore della falce nell’erba alta ed il profumo del fieno appena tagliato. No, non siete dentro un episodio di Heidi, ma potrebbe sembrarlo.
Beh, per una donna sola in tempo di guerra, quello che per noi bambini sembra il paradiso, poteva trasformarsi in un inferno. Mia madre mi racconta spesso che negli ultimi giorni della Repubblica di Salò, nel cuore della notte, una pattuglia di tedeschi ubriachi ha quasi sfondato a calci la porta di casa, e mia nonna nascosta in solaio con i bimbi addormentati ed il pancione di 7 mesi, pregava piangendo sottovoce che se ne andassero…
Questa nonna cosi forte e determinata, non era una cuoca ma sapeva dare grande sapore al nulla, ovvero quello che era disponile in quegli anni disgraziati.
Queste polpettine sono tradizionalmente un piatto lombardo molto conosciuto a Milano, ma presente in molte aree della regione, ed ogni famiglia sicuramente ci mette del suo. La mia nonna le faceva così ed erano speciali.
Involtini di verza di Nonna Gina.
-         400 gr di carne arrosto (non c’era carne in tempo di guerra, così la carne era sostituita da tanto pane e formaggio, ma in seguito gli involtini si sono arricchiti)
-         80 gr di salame crudo, o salsiccia o mortadella a vs. piacere.
-         3 cucchiai di parmigiano
-         3 cucchiai di pan grattato ( a vs. piacere)
-         50 gr. di prezzemolo tritato
-         1 spicchio d’aglio tritato
-         1 uovo
-         sale, pepe, noce moscata, q.b.
-         1 piccola verza (in Toscana è il Cavolo cappuccio) di c.ca 600 gr.
-         brodo vegetale
-         una cipolla
-         pancetta dolce a dadini 
-         vino bianco
Preparate le vs. polpettine tritando la carne nel mixer (io non la faccio troppo fine perché è piacevole sentire una certa consistenza quando si mastica) insieme al salame, quindi aggiungo il parmigiano, il pan grattato, l’aglio e il prezzemolo, l’uovo, il sale, il pepe e la noce moscata, e mischio tutto in una ciotola (ben bene con le mani perché i sapori si devono mischiare).
Preparo poi delle polpettine grandi come noci.
Successivamente scelgo le foglie più belle della verza, eliminando le prime più dure e le faccio lessare per un paio di minuti( 4 o 5 alla volta) in una capiente pentola con acqua bollente salata. Le faccio asciugare su un canovaccio, tamponandole se necessario con carta assorbente.
Dopo avere eliminato la costa centrale e diviso le foglie a metà, comincio a confezionare i miei pacchettini di verza mettendo al centro una polpettina e chiudendo la foglia con un filo di rafia (o altra cordicella alimentare). Questa e l’operazione più laboriosa, ma ci prenderete presto la mano.
Con questa quantità di impasto, dovreste ottenere c.ca 25 involtini.

Se avete un bel coccio di terracotta, sarà perfetto per la cottura. Preparate la cipolla tritata e la fate passire con la pancetta in 2 bei cucchiai di olio extra vergine (in Lombardia usano il burro). Quindi ponete i vostri involtini nel coccio e fateli rosolare qualche minuto quindi fate sfumare un po’ di vino bianco. Quando il vino si è tirato, cominciate la cottura versando via via del brodo vegetale caldo, coprite e proseguite per c.ca 30 minuti. Lasciate che gli involtini assorbano il brodo formando un delizioso sughetto alla fine.
Io li servo con del riso bianco, Arborio o Vialone che si insaporisce con il sughetto degli involtini.


 Amapola: Nonna, questa è per te.