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mercoledì 15 ottobre 2014

Torino Salone del Gusto: la mia personale Top Ten ed il conto alla rovescia.

Dieci ragazze per me - L. Battisti
Una settimana all'inizio del Salone.
Così è chiamato da chiunque graviti intorno al mondo food, con un misto di rispetto e soggezione.
La mia prima volta è stata due anni fa e posso dire che mi sembra solo ieri per l'intensità di emozioni provate, persone incontrate ed incredibili prodotti passati sotto il mio palato.
Quest'anno si ritorna, nuovamente ospiti di un protagonista assoluto come Garofalo, senza avere la più pallida idea di cosa aspettarmi da due giorni di follia gastromobile.
Quello che posso solo augurarmi è di poter trovare questi (per me) "magnifici 10", che vorrei scoprire, riassaggiare, toccare e possibilmente, alla fine della giostra, portarmi a casa.
Tutti rigorosamente in ordine alfabetico.
1. La Cuddrireddra di Delia
Cosa sarà mai vi chiederete.
E' un dolce, che ho scoperto proprio al Salone di due anni fa. Il primo incontro  gironzolando in solitaria tra gli stand della Regione Sicilia. Ed il produttore fu così carino che siamo rimasti a parlare per un quarto d'ora di quanto incredibile e rara sia la storia di questo biscottino.
Preparato ancora dalle mani delle donne di Delia, in quanto non è possibile riprodurre la sua forma, che assomiglia ad una piccola corona puntuta, utilizzando macchinari.
Anche la sua storia è particolare. Pare che sia un omaggio alle castellane che vivevano a Delia durante il periodo dei Vespri Siciliani. Grano duro, uova, strutto, scorze di arancia e cannella. Il tutto fritto in olio profondo. Un morso e l'intensa croccantezza speziata ti trascina in un caleidoscopio di sensazioni, che a me hanno riportato alla tavola di Natale, ai suoi profumi, a me bambina.
Spero che ci siano al Salone. E se ci andrete, cercatela, la Cuddrireddra
2. La Farina di grano arso
Per trovarla dovrete scendere fino in Puglia, a meno che non sia anche lei al Salone. E se ancora non ne avete provato il sorprendente gusto tostato e lievemente affumicato, non avete gustato l'essenza più vera della cucina pugliese. Quando ancora il grano si batteva sulle aie, vi era l'uso dei contadini della zona, di bruciare le stoppie ed i chicchi che restavano sulla terra, venivano raccolti dalle donne (perché nulla poteva essere sprecato) e macinati successivamente. I chicchi tostati dal fuoco, producevano questa farina dal colore della cenere e dal sapore unico. Strascinati di grano arso, cime di rapa e ricotta forte. Mi basta questo per un viaggetto in paradiso.
Uno dei frutti del mio cuore: il fico. Ma questo, che cresce in una regione di prodotti meravigliosi, è speciale. Piccolo, dalla buccia verde chiarissimo e dal cuore rosato, quando secca diventa rotondo e bianco e viene generalmente arricchito con mandorle e frutta secca dalle donne della zona. E' privo di filamenti che lo rendono particolarmente morbido anche quando viene disidratato ed è assolutamente meraviglioso da usare nelle preparazioni dolci. Lasciamo perdere la marmellata, assolutamente da capogiro. 
Aver letto di questa mela così speciale attraverso i blog di amiche, e non aver ancora avuto l'opportunità di vederla da vicino, annusarla e scoprirne il gusto, mi procura un senso di mancanza. Di disagio nervoso, come quando passi davanti ad una vetrina e vedi una borsa che sai non potrai mai permetterti. Sta lì, la guardi, sospiri e passi dritta.
Ecco, Mela rosa dei Monti Sibillini, ti ho dichiarato caccia grossa e ti stanerò dal catalogo del salone per venire a trovarti e portarti via.
A parte scherzi, questa  piccola mela è autoctona delle Marche e cresce tra i 450/900 metri di altezza in particolare sui versanti dei Monti Sibillini, vicino all'Umbria.E' un frutto piccolo, modesto e poco appariscente, dalla buccia grigiorosata, con un profumo intenso e molto aromatico (che ovviamente non vi so raccontare). Siccome viene raccolta tra agosto e ottobre, io mi aspetto che a Torino ci sia. Vero?
Si, proprio lei. Anche se sono Toscana, e vivo nel cuore di una zona in cui si producono salumi che meriterebbero delle standing ovation, io cerco la Mortadella di Prato. 
Non so se per campanilismo o per strategie commerciali, ma in terra di Cinta, non si trova la Mortadella di Prato.
E per chi non la conosce, non si aspetti di vedere un salume vagamente somigliante alla più conosciuta Bologna. La mortadella di Prato sembra più un salame, a grana grossa, morbida, di colore rosato opaco, e dal profumo inconfondibile. Nell'impasto viene aggiunto l'alchermes, come facevano le nostre nonne nelle loro preparazioni dolci, per dare un profumo speciale. E' un salume raffinato ed antico e spero di trovarlo al Salone. 
6. Il pane nero di Castevetrano
Non me ne vogliate ma ho una propensione verso il sud del mondo ed in questo caso i prodotti del nostro meridione la fanno da padroni nella mia lista speciale. Ho assaggiato questo pane grazie a mio marito che me ne portò un po' dopo un viaggio a Castelvetrano, abbinato al loro straordinario extravergine Nocellara. Dopo anni mi sogno ancora quell'aroma di tostato, dato da un frumento antico chiamato Timilia. Il pane diventa nero durante la cottura, effettuata solo nei forni a legna e la crosta ha il colore del caffè ed è cosparsa di semi di sesamo. Il mio pellegrinaggio nel padiglione della Sicilia sarà quello di una cercatrice d'oro nero.
7. Le paste di Meliga
Sono irriducibile. Mi piacciono i dolci e questi biscotti, che ho assaggiato per la prima volta proprio al Salone due anni fa, mi sono rimaste nel cuore. Un po' come i Crumiri e come tutti quei biscotti dall'anima rustica e paesana. L'uso della farina di mais conferisce una grana ruvida e pastosa a questi dolcetti, ma ciò che li rende assolutamente irresistibili è l'uso del burro di alpeggio, che li profuma e dona loro una friabilità unica. Sono certa che li troverò. Ci conto.
8. Il puzzone di Moena
Il nome mi ha sempre fatto simpatia. Ma se dovessi dirvi com'è questo formaggio, non potrei, perché non l'ho mai assaggiato e neanche visto da vicino.
So benissimo dove viene prodotto, nel cuore delle Dolomiti. Conosco Moena, luogo incantevole, le sue malghe, ma mi manca lui, il famigerato puzzone dal profumo penetrante e la tradizionale crosta color rosso mattone. La lavorazione di questo formaggio è particolare: durante la stagionatura ogni forma deve assolutamente essere lavata una volta alla settimana, a partire da 90 giorni fino a 16 mesi. Si produce solo da giugno a settembre in alpeggio....quindi io lo so che ci sarà a Torino...basterà seguirne il profumo.
Prima di tutto non è nero, ma di un verde scuro intenso. Cresce nella zona di Trevi, Montefalco e Bevagna e si ottiene lasciandolo crescere senza lavorazioni speciali, ovvero senza sbiancamenti.
Ancora non ho avuto il piacere di assaggiarlo, ma amici della zona me ne hanno raccontate meraviglie: assolutamente privo di filamenti (e questa è una roba che mi fa uscire di testa), ha una base panciuta ed un cuore molto tenero e ricco di polpa. La sua struttura consente ai locali di realizzare una ricetta che mi incuriosisce non poco e che spero di poter assaggiare presto: il sedano nero ripieno.
A metà ottobre vengono raccolti ma la produzione è molto limitata, circoscritta alla sua area. Ci sarai a Torino caro Sedano Nero? Spero davvero di si.
Finisco con una delle verdure che amo di più, il carciofo, di cui ho parlato spesso e volentieri in questo blog. Il piccolo carciofo di Perinaldo è una scoperta recente, grazie a svariati viaggi verso la Liguria. Cresce nella provincia di Imperia da maggio a giugno. Piccole teste di colore violetto, senza spine e cuore delicato. Sono conservati al naturale o sott'olio ed una preparazione speciale è quella destinata ai gambi, assolutamente deliziosi e privi di cuore fibroso. So per certo che non li troverò freschi, ma in barattolo è sempre comunque una festa. 

E voi, conoscevate questi prodotti? Vi ho incuriosito? Magari potreste raccontarmi il vostro prodotto del cuore. 


lunedì 29 ottobre 2012

E dopo il Salone del Gusto, ma quanto danno fastidio 'sti foodblogger?


Torino. Salone del Gusto 2012. 
Cibo, tanto cibo in tutte le forme. Chilometri nelle gambe per annusare, assaggiare, ammirare prodotti da tutto il mondo senza mai stancarsi. 
Una folla oceanica di curiosi, appassionati, professionisti, golosi cronici. E nel mezzo dell'oceano, un'onda anomala di strani individui, armati di macchine fotografiche, block notes, sporte piene di qualsiasi cosa e sorriso stampato sulla faccia. Senza soluzione di continuità. 
Perché se metti un foodblogger in una stanza piena di cibo, quello prima ride, va in estasi e poi tira fuori la macchina fotografica. 
Torino. Salone del Gusto 2012: invasione di foodblogger. 
Questa è stata la mia prima esperienza di condivisione di un evento così grande ed importante con amici foodblogger, tanti. 
Il tutto fortemente voluto e realizzato con precisione millimetrica da Emidio Mansi, Mr Gente del Fud/Garofalo, che ci ha generosamente ospitato e dal suo fantastico staff sempre presente. 
Al di là dell'esperienza in sé, che mi ha lasciato tantissimo umanamente e di cui potrei parlare per i prossimi 20 post, i 3 giorni a Torino mi hanno spinto ad una riflessione, una sorta di sedimentazione di sensazioni e domande che mi giravano nella testa da un po'. 
L'effetto innesco è stato il convegno su Gastronomia 2.0 tenutosi nella sala blu del Lingotto all'interno del Salone, sabato 27 ottobre, qualche minuto prima che partissi. Ci sono andata con alcune care amiche e ho ascoltato con reale interesse. Tra i relatori, lo stesso Emidio Mansi, Marco Bolasco Direttore Editoriale di Slow Food, Anna Maria Pellegrino,La Cucina di QB in rappresentanza della categoria Food Blogger, la giornalista di Repubblica Licia Granello e Giuseppe Cavalcanti, responsabile del Canale Terra e Gusto Ansa.it. 
Non mi dilungo troppo sul contenuto del convegno perché alla fine ha girato esclusivamente intorno ad un concetto essenziale: la comunicazione sul cibo e gastronomia oggi passa dal web. 
Il problema principale è che per chi la comunicazione la fa di mestiere, la/il foodblogger è colui che fa disinformazione sul cibo nascondendosi dietro ad un mare di ricette. 
Eloquente è stato l'intervento di Licia Granello che, se pur ampiamente condivisibile, mi è sembrato un coup de theatre anche un tantinello demagogico. Ma io sono una foodblogger e un po' mi dispiace sentirmi dire che prima di parlare di ricette (" prendi un chilo di pomodori"? Che significa un chilo di pomodori? Da dove vengono? Chi li coltiva? e così via andare), bisogna sapere di cosa si parla, bisogna sapere con cosa è fatto un dado, bisogna conoscere chi produce una certa farina. Mi infastidisce un certo modo accalorato di rivolgersi alla platea come se si parlasse a bambini della prima elementare, alzando la voce e sfogando una frustrazione tutta personale: "Dobbiamo fare guerra all'ignoranza che gira intorno al cibo. Abbiamo il diritto di sapere come e dove un prodotto è fatto". Vero, condivisibilissimo...ma a chi fare guerra?
La rete oggi è un mare magnum di ricette e di voci spesso strampalate e superficiali. La "nebulosa" foodblogger, come la chiama la Stampa in un articolo di ieri 28 Ottobre, è effettivamente un fenomeno impressionante se si pensa che la stima del numero di blog sul cibo si aggira in Italia intorno ai 3500 (ma non si hanno dati certi). 
Quello che però non mi è chiaro è il perché la Sig.ra Granello e una buona parte del mondo della comunicazione di massa, siano così inveleniti contro i foodblogger
Tenendo presente che:
- I foodblogger non vogliono e non ambiscono ad essere giornalisti. Gli bastano quelli già presenti. 
- I foodblogger si aspettano di ricevere informazioni dettagliate ed approfondite sul food e gastronomia dalla stampa ufficiale e quando non le ricevono, se le cercano e trovano da soli. Anche dove si produce il pomodoro Siccagno. 
- I foodblogger amano il cibo, amano la cucina, amano condividere molto più che comunicare ed amano la libertà che offre loro la rete. Dietro la quale non si nascondono.
- I foodblogger sono liberi di dire quello che pensano perché nessuno li paga per questo. Se scrivono di un prodotto, nella maggior parte dei casi è perché il prodotto vale lo spot. Il foodblogger che si rivolge all'azienda è libero di fare quello che vuole se l'azienda risponde, così come l'azienda che si rivolge al foodblogger più sentirsi rispondere "no, grazie". 
- I foodblogger quando vanno al ristorante, pagano all'uscita. E se sono stati male, sono liberi di dire che fa schifo senza dover per forza piegarsi a 90° solo perché è un ristorante di grido. O perché sono pagati per questo. E questa è una gran bella soddisfazione. 
- I foodblogger sono persone. Nella maggior parte dei casi sono donne. Nella grande maggioranza dei casi sono donne istruite, laureate, libere professioniste, lavoratrici e madri di famiglia. Sono donne curiose, di grande spirito e sterminata passione. Sono donne con capacità di spesa. 
Il blog è spesso ragione di shopping da ogni punto di vista: dal cibo all'attrezzatura fotografica, all'oggettistica per il food styling e per la cucina. Per i viaggi che le portano a cercare quell'ingrediente strano e prezioso o a scoprire una cultura lontana principalmente attraverso quello che viene portato in tavola. Sono le donne che alimentano il blog e non viceversa. 
L'unico ritorno che queste donne hanno dal blog, è un volume di sincere amicizie e piccole soddisfazioni personali. Perché di denaro neanche a parlarne. E solo per questo, per essere l'unico settore sociologico che in questo periodo alimenta l'economia stagnante, dovrebbero essere rispettate e riverite! 
- I foodblogger non fanno paura a nessuno. Sono una nebulosa che scrive di ricette e di vite personali e a volte fa anche informazione. 
Ci mettono la faccia e non hanno ambizioni secondarie. 
Stia tranquilla Sig.ra Granello.