Mi sono alzata alle 4.30.
Ho smesso di dormire alle 3.30 con l'ansia di non sentire la sveglia suonare.
Mi succede sempre così quando devo partire per accompagnare un gruppo.
Questa volta è Venezia, al Carnevale.
E' una settimana che monitorizzo il meteo e che dà ostinatamente pioggia.
Decido di credergli per una volta e mi vesto come Totò e Peppino in partenza per Milano. Non sicura di essermi coperta abbastanza, infilo guanti e cappello in borsa.
Vado all'appuntamento con il bus.
Alle 5.30 ricevo due telefonate e la mia lista di presenti si accorcia vertiginosamente causa influenza. 7 caduti in battaglia.
Alla fine, il mio già sparuto gruppo, si è ridotto a 16 persone.
Mia cognata Rosa mi ha detto: vengo con te così ti faccio compagnia.
Mentre scrivo, penso che se non fosse venuta, probabilmente adesso ricorderei questa giornata come un vero disastro.
Siamo arrivati a Venezia ed una pioggia sottile era già lì ad aspettarci.
Ma che sarà mai, ho anche l'ombrello.
Lascio il gruppo allo stato brado in Piazza S. Marco e con Rosa ci avviamo il più lontano possibile da quel luogo, già super gremito di gente stipata sotto i portici.
Il cappello viene accuratamente calato in testa, fa freddo!
Dobbiamo arrivare a Campo S. Polo.
Decidiamo di usare una strategia geniale: andiamo a caso.
Ho una guida di Venezia ma con una mano devo tenere l'ombrello e con l'altra sfogliare il libretto diventa impossibile, così cerco di ricordare l'ultima volta che sono stata a Venezia e la guida ci ha portato fin là.
Prima di tutto dobbiamo arrivare al Rialto.
Possibile che tutto il mondo sia a Venezia proprio oggi?
Camminare lungo le calle larghe poco più di un metro incrociando in senso contrario masse di coreani con ombrelli da combattimento, è un delirio.
Naturalmente, come nella migliore tradizione, ci perdiamo.
Rosa scatta foto compulsivamente: la vicinanza con i coreani è stata letale.
Però la capisco. Io mi guardo intorno e nonostante la pioggia incessante, non mi capacito di tanta bellezza. E' qualcosa di ipnotico ed emozionante. Mi aspetto da un momento all'altro, di incrociare Casanova a braccetto con l'ultima sua conquista.
Tiro fuori la reflex e cerco di fare qualche scatto con l'ombrello a ciondoloni sulle spalle. Nella testa mi romba la canzone Dolcenera,
"acqua che non si aspetta
altro che benedetta
acqua che porta male sale dalle scale sale senza sale sale
acqua che spacca il monte che affonda terra e ponte"
e l'acqua è davvero sopra e sotto. Non smette anzi aumenta.
Arriviamo in Campo San Polo estenuate. E' quasi l'ora di pranzo e se non troviamo un posto dove sederci all'asciutto, poi sarà troppo tardi, perché tutti avranno la nostra stessa necessità.
Giriamo e continuiamo a perderci. Ci infiliamo in labirinti di straduzze in cui si più passare una alla volta, non c'è un anima in giro e neanche l'ombra di un osteria. Disorientate ci rendiamo conto di passare più volte dallo stesso posto. Ci guardiamo, le facce livide. Cominciamo a ridere convulsamente.
OK. Adesso basta. Impegniamoci.
Vedo un cartello: Rialto. Torniamo verso il ponte, magari è più facile trovare un buco. Ma siamo esigenti: vogliamo sederci, vogliamo avere il tempo di asciugarci, mangiare con calma, chiacchierare. E di fronte ci si para Ponte S. Polo ed il ristorante sul ponte. Entriamo.
Non vedo più niente, gli occhiali sono appannati. Siamo bagnate come pulcini. Ci accompagnano al tavolo più lontano dall'ingresso (grazie a Dio). Ci spogliamo e finalmente siamo sedute tranquille.
Sento un pizzico sulla natica destra. Mi alzo con un balzo e vedo sporgere da sotto la paglia della sedia, un frammento di vetro grosso come una moneta da un euro, con due punte rivolte verso l'alto. Cacchio mi sono tagliata! Porto la mano alla mela e con orrore sento uno sbrano nel pantalone lungo almeno 10 cm. Mi tocco e non ci credo: ho la chiappa al vento. Mi giro e faccio vedere la cosa a Rosa e vedo la sua faccia sbiancare. Nonostante tutto neanche un graffio: che culo!
Tolgo il vetro dalla sedia, lo do alla cameriera che mi guarda mortificata e le mostro il danno. Spero di non dover fare lo show anche per il proprietario!
Sono tendente al furioso ma cerco di calmarmi. Ho la maglia lunga, il piumone lungo...posso tornare a casa senza dare spettacolo. Ma adoravo quei pantaloni...
Rosa ed io ci attacchiamo al quartino di prosecco che ci hanno messo sul tavolo. Beviamo per scaldarci e per farmi passare la rabbia.
Dopo dieci minuti ridiamo come sceme. Mangiamo, parliamo, guardiamo il pienone del ristorante, e ci sentiamo bene al calduccio. Non vogliamo pensare a come trascorreremo il tempo fino alle 17.00. Per adesso abbiamo vinto noi.
Rientrata a casa ho avuto l'irresistibile voglia di preparare dei biscottini tradizionali che ho visto ovunque nelle vetrine delle pasticcerie veneziane.
Ho letto che sono tipici del periodo carnevalesco ma non ho idea di che sapore abbiano per cui probabilmente questi miei non avranno nulla a che vedere con quelli originali.
Però sono buoni e anche parecchio bellini. Ecco i miei Zaleti.
Ingredienti per c.ca 30 biscotti:
200 gr di farina bianca 00
250 gr di farina di mais tipo fioretto
130 gr di uvetta sultanina
100 gr di zucchero
2 cucchiaini di lievito in polvere
120 gr di burro morbido
2 uova
la scorza grattugiata di un limone (io arancia)
mezzo bicchiere di grappa
Mettete l'uvetta in ammollo nella grappa per c.ca 30 minuti.
Miscelate le farine e mescolatele con lo zucchero ed il lievito setacciato, quindi impastate il tutto in una ciotola capiente aggiungendo il burro ammorbidito, le uova leggermente sbattute, la scorza grattugiata dell'arancia e per ultimo l'uvetta ben strizzata. Aggiungete anche un paio di cucchiai di grappa. Otterrete un composto morbido.
Su una teglia foderata con carta da forno, con due cucchiai ho fatto delle quenelle di pasta e le ho posizionate a c.ca 2 cm di distanza l'una dall'altra. Ho fatto cuocere per c.ca 18 minuti in forno a 180° e fatto raffreddare su una gratella.